giovedì, 17 Ottobre 2024

Da Startup a Scaleup: capitali di rischio per decollare

Sommario

Ennesima bandiera nera per il nostro Paese. Solo l’1,4% dei laureati italiani sceglie discipline ICT (Information and Communication Technologies), secondo l’ultimo report del DESI (Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società), rappresentando il dato più basso dell’Unione europea. Si ferma al 3,8% dell’occupazione totale la percentuale di specialisti ICT nel mercato del lavoro, ancora al di sotto della media UE (4,5%). Più vicino alla statistica, invece, è il dato relativo alla presenza delle donne nel settore digitale che rappresentano il 16% del totale, rispetto a una media UE del 19%.

Le Scaleup, che si nutrono di figure specializzate nel settore, sono spesso costrette a cercare profili all’estero. Nonostante ciò, nel 2020 impiegavano 4.410 dipendenti e in soli due anni hanno raggiunto una crescita del 75% arrivando a 7.736 posti di lavoro generati. Questo ciò che emerge dall’ultimo report dell’Osservatorio Startup Hi-tech del Politecnico di Milano. Nel 2022, le Scaleup, rappresentanti circa l’11% del campione totale, contribuiscono al 50% dei posti di lavoro impiegati. I profili tecnici risultano essere tra quelli più ricercati e difficili da reperire per la totalità delle Scaleup intervistate.

«Le Scaleup sono Startup che hanno validato il proprio modello di business e continuano a espandersi. In linea con le direttive OECD (Organizzazione della Cooperazione e dello Sviluppo Economico) è possibile identificarla come una Startup con almeno 10 dipendenti che cresce di oltre il 20% in termini di fatturato e/o di numero di dipendenti nei successivi tre anni. Dal mio punto di vista, la vera differenza è che la Startup ha come principale obiettivo capire se funziona e quindi opererà in termini prettamente sperimentali. La Scaleup invece ha capito che il modello funziona e si tratta a questo punto di farlo crescere il più rapidamente possibile», dice Antonio Ghezzi, Direttore Osservatorio Startup Hi-tech PoliMi.

Quand’è il momento giusto per passare da Startup a Scaleup?

«Alcuni definiscono la Startup come un’organizzazione che si configura per la sua temporaneità, ossia ancora non strutturata e alla ricerca di un modello di business replicabile. Questa è una definizione che enfatizza il fatto che, all’inizio della sua costituzione, la Startup fatica ancora a trovare una struttura. Peraltro, non ne ha bisogno inizialmente perché deve rincorrere opportunità di mercato in maniera molto flessibile e agile. Una volta che la Startup ha trovato il modello di business, cioè ha validato sul mercato la sua idea, è il momento di far scalare il business model. Da quel momento diventa Scaleup».

Quali sono le caratteristiche imprescindibili per una Scaleup affinché possa decollare?

«Serve fare delle distinzioni: ci sono caratteristiche sia di natura interna sia di natura esterna. Le prime sono legate alla capacità di portare avanti questa execution, servono le capacità operative e manageriali per la gestione della fase di crescita. Non necessariamente caratterizzano le Startup, per natura imprenditoriali. Non è detto che un imprenditore sia in grado di fare il manager. La Scaleup deve essere in grado di cristallizzare le proprie risorse, competenze e creatività in processi standardizzati in modo da poter ingegnerizzare, produrre e poi commercializzare le proprie soluzioni. Si inizia qui a fare marketing in maniera spinta, non come fanno erroneamente alcune Startup. È solo una volta consolidata che la Scaleup può iniziare a fare customer creation».

E dal lato esterno?

«Qui il tema è il mercato. Ci sono delle Startup che si chiamano born global e che quindi molto più rapidamente di altre diventano Scaleup. Alcune invece, operando in un mercato nazionale piccolo come quello dei Paesi baltici, devono internazionalizzare da subito perché altrimenti avrebbero un limite rispetto alla domanda. Il Mercato italiano è una via di mezzo, purtroppo e per fortuna. C’è lo spazio per consolidarsi, però le Startup credendo di poter sopravvivere molto spesso non nascono con l’idea di internazionalizzarsi da subito e perdono una grande occasione di sbarcare su altri Mercati europei o internazionali».

Quali sono le criticità nell’affrontare il percorso di sviluppo?

«Possiamo distinguere lato persone e lato risorse in termini di asset. Le Scaleup a volte falliscono nel tentativo di effettuare lo scaling proprio perché, dal punto di vista persone, il team potrebbe avere grandi competenze in termini di innovazione, necessaria nella fase iniziale, ma mancare in capacità manageriale. Quindi i problemi sono a livello di gruppo, che deve essere in grado di fare questo balzo in avanti. E poi a livello di capacità di identificare gli asset esterni, ad esempio tecnologici, che possono abilitare alla crescita. Un ulteriore elemento in termini di risorse è la capacità di fanbasing e di raccolta. La Startup può campare con centinaia di migliaia di euro, la Scaleup ha bisogno di milioni, se non decine di milioni».

Qual è l’impatto delle Scaleup nell’ecosistema italiano?

«I tassi di crescita della popolazione aziendale delle Scaleup (pari al 32% all’anno) sono superiori a quelli delle altre categorie di impresa (piccole e medie imprese comparabili). Oltre a generare posti di lavoro, le Scaleup sono in grado di innescare dinamiche interessanti che possono fungere da volano per l’ecosistema. Ne è un esempio il flusso di uscita di dipendenti. Il 38% delle Scaleup intervistate afferma che almeno uno dei propri dipendenti usciti dall’organizzazione ha continuato il suo percorso o in altre Startup, o addirittura, ha dato vita a una nuova attività imprenditoriale (19%). Inoltre, la quasi totalità delle Scaleup dichiara che i propri dipendenti, una volta usciti dall’organizzazione, continuano il loro percorso di carriera all’interno di Corporate. Questa dinamica permette di contaminare, stimolare e innovare la cultura, il modo di lavorare tipico di aziende tradizionali».

Come si collocano le Scaleup italiane nel contesto europeo e globale?

«Le Scaleup si concentrano sulla propria espansione e accelerazione, il che spesso le porta a cercare capitali di rischio per sostenere la loro crescita. L’Italia da questo punto di vista deve ancora recuperare terreno rispetto a ecosistemi europei più maturi di economie comparabili quali Francia, Germania e Spagna. In termini di investimenti da parte di attori formali come i Venture Capital, l’ecosistema italiano è pari a circa 1/6 rispetto a quello francese, 1/4 rispetto a quello tedesco, e comparabile rispetto a quello spagnolo».

È un buon momento per inserirsi nel Mercato?

«Le Scaleup sono animali strani. Fino a 3-5 anni fa erano le migliori candidate per diventare un unicorno, un’azienda con una capitalizzazione di borsa reale o stimata di almeno un miliardo di dollari. Prima si guardava al potenziale di crescita, adesso si punta sempre di più al potenziale di generare ritorni anche nel medio termine, non nel lunghissimo. Si guarda perciò ai centauri, coloro che riescono ad avere un fatturato di almeno 100 milioni di dollari. A seconda dell’interlocutore, se hai la capacità di dimostrare queste performance, ossia crescita e Mercato, allora troverai l’investitore giusto che possa sposare l’idea di svilupppo dell’impresa, magari non nel sistema nazionale, ma in quello internazionale o europeo».

Ma sul lato concorrenza non è la stessa cosa?

«In genere tende a sottostimare l’impatto disruptive delle Scaleup proprio perché quest’ultime propongono soluzioni tecnologiche molto diverse rispetto a quelle della concorrenza affermata. Oggi quello che dovrebbe esserci e purtroppo manca nel nostro Paese è una maggiore permeabilità delle imprese Corporate. Questo va sotto il nome di corporate entrepreneurship in senso ampio, cioè aiutare le imprese consolidate a ricordarsi cosa volesse dire essere imprenditoriali. Nello specifico Corporate Venture Capital, cioè avere fondi VC che siano finanziati e alimentati dalle Corporate. Un aspetto che negli Stati Uniti pesa il 50% rispetto agli investimenti totali, mentre in Italia pesa meno del 10% e qui capiamo perché il nostro sistema è così piccolo».

In termini di finanziamenti come si posizionano?

«Più del 60% delle Scaleup ha ricevuto un round di finanziamento Serie A o superiore (cioè hanno raccolto un round di finanziamento superiore ai 4 milioni di euro). Nonostante il calo complessivo dei finanziamenti raccolti, il processo di affermazione delle Scaleup italiane continua, con alcune realtà che sono state in grado di raccogliere round di finanziamento significativi anche nel 2023. Un esempio su tutti quello di Bending Spoons, Scaleup che ha ormai raggiunto lo status di unicorno che ha raccolto 100 milioni di euro».

Quali sono i settori in cui riescono a distinguersi e quelli dove fanno più fatica?

«I settori che presentano un maggior numero di Scaleup sono Digital (e.g. Wellness & Entertainment, Marketing & Media, Enterprise Software). Considerando il numero medio di dipendenti, è l’ambito Deeptech a ricoprire le prime posizioni sul Mercato (e.g. Space Economy, Agritech, Healthcare, Life Science). Quest’ultimi non sono solo più capital intensive, ma anche più human intensive».

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📸 Credits: Canva.com

Articolo tratto dal numero del 1 giugno 2024 de il Bollettino. Abbonati!

Determinata, ambiziosa, curiosa e precisa. La passione per il giornalismo mi guida fin da bambina. Per Il Bollettino mi occupo di Startup e innovazione, curo le interviste video ai player del settore e seguo da anni la realtà delle PMI.