giovedì, 17 Ottobre 2024

L’economia delle madri pesa sulle giovani donne

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Le ragazze col portafogli sono ancora troppo poche. La percentuale di donne nel Mercato del lavoro è scarsa e la parità economica è ancora un miraggio. Serviranno 169 anni affinché possa essere realtà secondo le stime del Global Gender Gap Report. Il Sistema di certificazione delle pari opportunità, introdotto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e normato dalla recente legge Gribaudo, mira proprio a colmare il divario retributivo di genere che si manifesta nella differenza tra il salario medio percepito ed aumentare le possibilità di crescita aziendali delle lavoratrici. Ma ancora non si vedono risultati importanti. Serve un cambiamento di scenario per dare il buon esempio alle ragazze.

Quale immaginario e desiderio di autonomia lavorativa ed economica potranno sviluppare le figlie in un contesto di diffusa disoccupazione delle madri e delle donne in generale?

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«Ci sono poche ragazze con il portafogli in giro. Spesso il lavoro delle madri è visto come una seconda entrata, spesso collegato a percorsi di part-time o meno remunerati. Questo è un problema poiché si potrebbe reiterare questo modello nella generazione successiva. Rischiamo infatti che ci siano poche donne che si affermano nella sfera pubblica e lavorativa» dice Anna Granata, professoressa associata di Pedagogia nel Dipartimento di Scienze umane per la formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano-Bicocca e autrice del libro Ragazze col portafogli Una pedagogia dell’emancipazione femminile, edito da Carocci Editore. «Dobbiamo fare in modo che ci sia un movimento dal basso, fatto di donne che non vivono nel loro contesto domestico questa dimensione con vergogna. Altrimenti rischiamo di trasmettere questi sentimenti negativi alle nostre figlie. C’è tutta una dimensione di senso di colpa e vergogna che dobbiamo contrastare considerando il lavoro come qualcosa da raccontare a tavola, vedere positivamente le opportunità di carriera come un beneficio per madri e figlie. Così possiamo mettere in atto una rivoluzione culturale. Non è facile né scontato, mi rivolgo principalmente alle insegnanti, a volte le uniche lavoratrici che le bambine incontrano. Al Sud l’occupazione femminile è bassissima e le poche donne che lavorano sono nella scuola.Dovrebbe partire una valorizzazione della dimensione lavorativa».

Nel suo libro scrive che negli ultimi tempi abbiamo assistito a momenti di arretramento sul fronte della gender equality, per quale motivo?

«Il tema del cambiamento dei ruoli di genere si tende a pensare che segua un processo lineare, in realtà i nostri antenati vivevano una dimensione di parità di genere più significativa di quella che viviamo oggi: c’erano raccoglitori e raccoglitrici. Da studi si evince che la divisione dei ruoli di genere non appartiene al passato. Recenti ricerche fanno sapere che il breadwinner (la concezione che solo un membro della famiglia debba guadagnare per sostenerla) sia una figura recente, ottocentesca. All’epoca le donne erano molto occupate. In qualche modo la Rivoluzione Industriale è stata possibile grazie a una forte parità occupazionale tra uomini e donne. Avanzamenti e retroazioni sono molto frequenti, quindi è difficile affermare attualmente a che punto siamo. Alcuni dicono che abbiamo di fronte qualche decina di anni per raggiungere una parità di genere, ma sono abbastanza scettica perché sono processi culturali, normativi e politici che non evolvono in maniera spontanea e progressiva».

Cosa si può fare ancora per colmare il gender gap in ambito economico e lavorativo?

«Se osserviamo quanto accade in Italia apprendiamo di essere ultimi in UE per tasso di occupazione femminile. Un tristissimo primato: siamo il fanalino di coda d’Europa. Se guardiamo a Paesi che hanno raggiunto una buona parità di genere vediamo che c’è un movimento che riguarda la dimensione strutturale, politica e normativa. Servono leggi che riconoscano congedi parentali, servizi per la persona e l’infanzia per gestire genitorialità e lavoro in maniera serena, da noi ancora molto carente. Mancano politiche di lungo periodo e investimenti che possano sostenere le famiglie che vogliono avere un figlio e favorire l’accesso all’informazione. Non dobbiamo sottovalutare gli immaginari legati al lavoro femminile, ai ruoli di cura. Non è sufficiente approvare norme, dobbiamo lavorare anche sugli immaginari e processi di identificazione tra bambini e le generazioni precedenti che devono andare in direzione di una promozione della figura pubblica femminile, nel lavoro, ma anche nella partecipazione e nella rappresentanza politica».

Perché emancipazione della donna ed educazione delle ragazze sono profondamente legati?

«Come educatori ed esperti della scienza dell’educazione abbiamo fatto l’errore di pensare che ci potesse essere una formazione nella prima infanzia distinta e scollegata rispetto a quella dell’età adulta. Anche dividendo le discipline si rischia di non vedere i nessi tra auto-educazione delle madri e delle figure femminili, le insegnanti, le educatrici e il processo di crescita delle bambine. La crescita si basa sul processo imitativo da parte delle bambini in cui si osservano le figure adulte di riferimento. C’è un processo più profondo di identificazione di genere, che significa seguire le figure prescelte attraverso un processo di somiglianza. Possono influenzare studi e scelte lavorative. Se c’è un’identificazione tra pari riguardo cose come gusti musicali, sport, moda. Per quanto riguarda le scelte importanti, invece, le ragazze fanno riferimento a madri, il modello più vicino, ma non solo».

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Chi sono gli altri modelli a cui le ragazze guardano?

«Le giovani guardano anche alle figure di donne lavoratrici, che possono rappresentare un modello virtuoso in cui identificarsi. Esiste un costrutto del material employment che si riferisce al fatto che madri di bambini piccoli lavorino. Sappiamo da ricerche svolte sul lungo periodo che in famiglie in cui le madri sono occupate e hanno una carriera è frequente che le figlie abbiano un percorso analogo. Dagli studi che cito nel libro, condotti in tre Paesi diversi, è emerso che le figlie con madri lavoratrici non soffrono, anzi possono intraprendere percorsi di vita positivi per la loro vita. Da questo punto di vista c’è ancora molto da fare, perché gli immaginari sono ancora legati a un modello di madre casalinga che segue il figlio nei compiti. Anche per questo motivo siamo uno dei Paesi in Europa con il maggior carico di studio a casa. Un trend che replica un modello di madre fortemente coinvolte nella cura, rendendo difficile il mantenimento del proprio mestiere. Non a caso, una donna su 5 dopo aver partorito lascia il lavoro».

Quali impatti positivi e negativi ha la relazione educativa tra donne di età diverse?

«Penso ci sia un potenziale enorme nelle relazioni interne all’universo femminile per avere un altro modo di pensare la cooperazione. Siamo oggi immersi in un modello maschile che separa auto-realizzazione e collaborazione. Le donne che arrivano ultime nel contesto lavorativo possono aiutare ad unire le due dimensioni. Quando riusciamo a operare insieme e promuovere progetti nei quali crediamo profondamente l’effetto è straordinario. Vorrei nominare le figure intermedie, le persone terze che non sono le pari delle ragazze di oggi, ma neanche le donne della generazione precedente. Credo molto nelle giovani donne rispetto alle quali le bambine non hanno una distanza così profonda e possono diventare punti di riferimento nei quali identificarsi. Nello scoutismo grazie a Vera Barclai sono emerse le cape scout, figure che hanno delle grandi responsabilità, ma anche le educatrici. Loro possono colmare il gap tra bimbe e donne adulte. Le competenze finanziarie, secondo i dati OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), rispetto alle quali le ragazze hanno punteggi molto bassi legate alle competenze logico-matematiche e al fatto di avere un’occupazione durante l’adolescenza. Questo lavoretto svolto in maniera informale ha un impatto molto forte sulla capacità di gestione delle proprie finanze anche in età adulta. Tendiamo a valorizzare più ciò che fanno i figli maschi rispetto alle bambine. Bisogna invece potenziare la parte imprenditoriale così divengono un modello per loro, ma anche per le più piccole».

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Dove investono di più le donne?

«Il quadro è amaro perché siamo un Paese in cui ci sono pochi figli e c’è poca occupazione femminile. Cosa fanno le donne che non lavorano? Vorrei uscire dalla logica secondo cui dobbiamo scegliere in quale ambito realizzarci, la logica dell’out-out che ha caratterizzato le nostre madri e nonne, che porta a mortificare una parte di sé, non ci aiuta. Il Nord Europa è un contesto dove le donne lavorano, fanno carriera e figli. C’è una correlazione positiva tra occupazione, percorsi di lavoro tutelati e la dimensione materna. Le donne che hanno 2/3 bambini infatti anche nel nostro Paese lavorano e hanno un contratto fisso».

Quanto è alta l’attenzione al risparmio e alla sostenibilità?

«Sappiamo che in Italia 1 donna su 3 non ha un conto in banca intestato a proprio nome. Fino al 1963 vigevano le clausole di nubilato per cui una donna o lavorava o era sposata, in quel caso doveva chiudere il conto in banca. In realtà le mogli risparmiano, è una forma di sviluppo della propria emancipazione, ma anche per i propri figli. Questo modello del mettere via per sé e per gli altri è una pratica sostenibil. Lo vediamo anche nelle svariate esperienze di micro-credito femminile in Paesi in via di Sviluppo, come il Bangladesh e altri luoghi dove la povertà e dilagante. Ancora una volta una dimensione cooperativa che può essere una via verso la sostenibilità. Penso che dobbiamo pensare ad affidare presto alle bambine piccole somme di denaro che consentano loro di sviluppare la capacità di risparmio e decisionale, per poter scegliere svincolandosi dalle eventuali influenze genitoriali. Così facendo insegniamo loro a prendere decisioni in modo consapevole». ©

Articolo tratto dal numero del 1 luglio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

Il mio motto è "Scribo ergo sum". Laureato in "Mediazione Linguistica e Interculturale" ed "Editoria e Scrittura" presso La Sapienza, mi sono specializzato in giornalismo d’inchiesta, culturale e scientifico. Per il Bollettino mi occupo di energia e innovazione, i miei cavalli di battaglia, ma scrivo anche di Mercati, spazio e crypto.