mercoledì, 16 Ottobre 2024

Gervasoni, LIUC: «Le università facciano incontrare giovani e aziende»

Sommario

L’università si adatta per rispondere ai bisogni ormai primari del sistema industriale: innovazione sostenibile e tecnologica. Per fare la differenza, gli atenei di oggi devono saper comunicare, con l’economia reale e con gli altri centri di ricerca, in quello scambio continuo che è l’open innovation. «L’innovazione è al centro» dice Anna Gervasoni, Rettrice eletta della Libera Università Carlo Cattaneo (LIUC) di Castellanza, che entrerà in carica il prossimo 1 novembre. «Lavoreremo per attirare docenti e studenti dall’estero: è un aspetto fondamentale di cui tenere conto» aggiunge.

Quali sono le sue priorità come rettrice?

«Gli aspetti cui prestare attenzione sono tanti, perché l’università sta cambiando, così come la mentalità dei ventenni e il Mercato del lavoro. Noi siamo una sorta di anello di congiunzione tra le vite complicate dei ragazzi che entrano e il mondo professionale, che presenta dinamiche molto nuove, con tante incertezze a livello di scenario. Cosa deve fare in questo contesto un ateneo? La mia idea è che debba innanzitutto essere innovativa,. Questo significa che insieme ai colleghi andremo a rivedere nei nostri corsi di laurea di economia e di ingegneria per inserire in modo trasversale alcuni temi, come l’intelligenza artificiale e la sostenibilità, che a mio parere non sono più una disciplina, ma qualcosa di pervasivo, dei concetti trasversali».

Quali sono i vostri progetti per il futuro?

«La trasversalità di cui parlavo sarà una chiave importante. Noi siamo un’università non statale di piccole dimensioni e con due scuole: economia e ingegneria. Un caso unico nel sistema. Queste due anime devono dialogare creando momenti di formazione e ricerca congiunti, è una prospettiva alla quale credo molto. In più, continueremo a lavorare, in continuità con gli ultimi tre anni di mandato all’internazionalizzazione, a promuovere la LIUC all’estero. Noi siamo già molto internazionali: tra le università piccole, nelle classifiche Censis siamo già al primo posto su questo parametro. Ma proprio per questo dobbiamo fare ancora di più, lavorando al reclutamento di studenti e docenti da fuori.

C’è poi un altro aspetto, quello del legame e di  sinergia tra noi e le imprese, partendo dal mondo rappresentato da Confindustria Varese, i nostri stakeholder. La LIUC nasce nel 1991 con un DNA imprenditoriale per volontà degli imprenditori della provincia di Varese, ma ormai abbiamo sviluppato  rapporti con realtà nazionali e internazionali. Infine, un punto di grande importanza è l’attenzione ai giovani docenti e dottorandi, che saranno il futuro dell’ateneo. Voglio dedicarmi a loro per trattenerli, stimolarli e far sì che trovino le migliori soddisfazioni in questo lavoro».

Cosa ci può dire riguardo alla progettazione didattica?

«Dopo il primo di novembre, quando confermerò i dean delle attuali scuole di ingegneria, economia, PHD e business school, inizierò con loro una selettiva programmazione e riprogettazione di alcuni corsi e percorsi di laurea. Abbiamo già delle idee, però dobbiamo parlarne insieme, cercando di guardare non solo ai prossimi tre anni del mio mandato, ma a un orizzonte temporale di almeno dieci anni».

In che modo si possono trattenere i giovani ricercatori?

«Vorrei innanzitutto creare un focus sulle loro carriere, il che vuol dire aiutarli a intraprendere un percorso accademico, attraverso il potenziamento della ricerca e dei circuiti internazionali. Aiutarli a guadagnare il giusto, anche con attività di terza missione che possiamo attivare grazie alla nostra business school e grazie ad altre iniziative che si possono mettere a punto. E poi avere un’attenzione particolare alle giovani ricercatrici che diventano mamme, perché quello per noi donne è un momento molto importante di snodo, per capire se ce la fai ad andare avanti oppure no. Su questo, mi impegnerò in prima persona.

Un altro strumento è il dialogo interdisciplinare, che deve essere sempre un canale aperto alle nuove idee. Questo nucleo di giovani sarà anche quello che farà da perno per le iniziative di innovazione e di open innovation che vogliamo attivare con le imprese, perché questi progetti hanno bisogno di guide e professori visionari con esperienza, ma anche di giovani forze che ci lavorino».

In Italia è ancora frequente il problema della scarsa rappresentanza femminile all’interno dei settori STEM, ma anche, più in generale, non umanistici. È un divario che è forte, per quello che vedevo, anche nel vostro ateneo. Dai dati 2022/2023, di 2705 iscritti, solo 919 erano donne. Come si può incentivare una maggiore partecipazione femminile a queste facoltà?

«Il problema è gigantesco e come tutte le grandi questioni va segmentato. Sono una persona abbastanza pratica e concreta e ho fatto un esperimento: da 25 anni dirigo il master in Private Equity, dove storicamente avevamo avuto una popolazione quasi solamente maschile, magari con una sola donna in aula. Quello che ho fatto è stato parlare in prima persona con le nostre allieve, a dire ogni volta che incontravo ragazzi e ragazze in altre università e nei licei che la finanza e soprattutto il Private Equity non sono un tabù e non sono un’enclave maschile. Anzi, i fondi di PE stanno cercando con tutte le loro forze di assumere più donne, perché se lo sono dato come propria disciplina. Il risultato è che quest’anno, per la prima volta, abbiamo un’aula composta da metà uomini e metà donne.

Il team della LIUC che va a fare attività di comunicazione finanziaria nelle scuole superiori continuerà a lavorare in questa direzione. Un primo step è far parlare più donne, per incoraggiare le ragazze dando un esempio: si può essere insieme madri e professioniste, si possono avere una famiglia e un lavoro impegnativo. Ma non bisogna essere costrette a rinunciare a uno dei due aspetti a favore dell’altro».

Crede sia un obiettivo perseguibile anche come singola università o dipenda principalmente da fattori di sistema?

«Tante volte le cose più semplici, banalmente essere presenti nel dialogo, nei meeting o ai convegni, bastano a dare coraggio alle persone. Non è sempre questione di politica industriale, incentivi, borse di studio… Io faccio da mentore in tante associazioni e quello che vedo è il bisogno di rafforzare la volontà di tante ragazze che sono molto brave, ma hanno semplicemente paura. Dopodiché, gli strumenti mirati sono necessari e infatti stiamo lavorando anche a quelli: in particolare, qualche intervento specifico lo avremmo in mente, ma va ancora presentato agli stakeholder e bisogna trovare i fondi».

Quali sono i piani dove si può fare di più?

«In generale, credo che ci voglia un’attenzione particolare, per esempio nell’erogazione delle borse di studio. Il che non vuol dire fare l’università al femminile o cose simili: il merito è sempre davanti a tutto. Dopodiché, bisogna anche incoraggiare chi magari ha meno sicurezza».

Il vostro ateneo è radicato in un territorio a forte vocazione industriale. Riuscite ad avere una comunicazione diretta con le imprese che vi consenta di superare problemi come, per esempio, lo skill mismatch, che è molto diffuso in Italia?

«Certo. Abbiamo un dialogo serrato che si traduce in rapporti concreti: abbiamo centri di ricerca congiunti, osservatori dove partecipano le imprese, anche dal settore finanziario. Per esempio, io guido un osservatorio, Banca Impresa 2030, dove nel comitato scientifico abbiamo presidenti e amministratori delegati dei 10 principali istituti di credito italiani. Di conseguenza, quello che sta succedendo sul lato della domanda di profili professionali lo abbiamo ben presente.

È una relazione che ha un impatto sulla ricerca, ma anche sulla didattica, per esempio nel far partecipare alle lezioni esponenti dal mondo del lavoro, che insieme a noi diventano docenti e testimoni. E poi fare progetti di business school con gli imprenditori. A tal proposito, spero che entro breve saremo in grado di lanciare dei master fatti insieme. E i risultati si vedono: queste attività in ascolto e in collaborazione con le imprese fanno sì che, a livello di placement, non facciamo in tempo a laureare i ragazzi che hanno già lavoro. E questo non solo per l’ottima efficienza del nostro career service, ma anche perché si fa un grosso lavoro prima per immettere sul mercato i profili richiesti.

D’altra parte, abbiamo anche una intensa attività di presentazione del mondo del lavoro ai nostri studenti, in modo tale che capiscano a cosa orientarsi e come orientarsi. Anche qui, ci vogliono incontri, perché il matching sia reciproco».

Il tema degli investimenti in innovazione industriale è al centro della sua carriera, in qualità di Direttrice Generale dell’associazione italiana Private Equity e Venture Capital e per il lavoro all’osservatorio sul VC. Cosa possono ancora fare le università per dare un contributo ancora maggiore a questo ecosistema?

«Questo è l’aspetto che mi appassiona di più e su cui credo di avere competenze. Io ho un progetto che vede proprio lo stimolo al dialogo tra università e impresa. Avendo la fortuna di avere all’interno della LIUC competenze sia di management sia tecniche e tecnologiche grazie ai nostri ingegneri, noi possiamo fare moltissimo. Ma questo vale in generale per tutte le università: bisogna mettere a sistema le competenze dei nostri centri di ricerca con una sorta di anello di congiunzione con le imprese, che deve vedere tre pilastri molto forti. Il primo è l’individuazione degli elementi portanti del cosiddetto technology transfer; quindi, cosa serve all’impresa e cosa può dare chi studia la tecnologia.

In secondo luogo, è fondamentale il tema dei brevetti, su cui noi abbiamo un fortissimo centro d’eccellenza a livello italiano, guidato dalla professoressa Manzini, che si occupa di proprietà intellettuale da molti anni. Infine, la terza gamba è il reperimento dei capitali , e su quello abbiamo i nostri osservatori finanziari , il VeM, Venture Capital Monitor e il PEM, Private Equity Monitor. La parte finanziaria è quella che conosco meglio, quindi mi viene relativamente più facile. Questa struttura vuole far sì che le imprese trovino in LIUC un luogo anche fisico dove incontrare le competenze tecnologiche, capire come applicare nei loro processi alcune tecnologie, come l’intelligenza artificiale, rendendole patrimonio dell’azienda, magari qualcosa di brevettabile. Infine, appunto, possono incontrare chi li finanzi: in primis, Venture Capital e Private Equity, ma anche le banche o altri strumenti innovativi».

In relazione al dialogo con Regione Lombardia, riscontrate una risposta forte, positiva, dall’interlocutore pubblico o c’è comunque un po’ di fatica?

«Noi siamo non statali, quindi facciamo molta fatica. Non riceviamo praticamente niente, a livello di danari pubblici. Devo dire però che, con Regione Lombardia, da un po’ di tempo a questa parte, grazie in particolare all’Assessore a Università, Ricerca e Innovazione Alessandro Fermi, abbiamo trovato un interlocutore di enorme sensibilità, che pensa alle università lombarde nel loro insieme. Pubbliche e private, milanesi e non, di ciascuna natura e settore disciplinare. Con lui, assieme agli altri rettori lombardi, siamo portando avanti un bellissimo percorso».

Qual è la qualità più importante per una rettrice – o un rettore – nel 2024?

«L’ascolto. Ascoltare le esigenze degli studenti, degli stakeholder e dei colleghi, cercando di fare qualcosa che abbia senso per tutti».

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📸 Credits: Canva

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".