mercoledì, 16 Ottobre 2024

Non solo gli stipendi deprimono i lavoratori

DiIlaria Mariotti

15 Ottobre 2024
Sommario

Solo poco più della metà dei lavoratori (il 58,2%, dato ISTAT) è soddisfatta del proprio inquadramento professionale. Va meglio per il gradimento sul tipo di occupazione, qui la percentuale arriva al 60. Un numero che fotografa un Paese parzialmente insoddisfatto. Può andare peggio? Sì. Perché la percentuale cala quando si parla di opportunità di carriera e di trattamento economico. Nel primo caso, chi si dice felice è poco più di un terzo – il 31% del totale – mentre pochi di più sono quelli che sentono di avere una retribuzione adeguata (il 38%). Un malcontento che non risparmia nessuno, dai manager alle figure junior. Nonostante nel 2023 la percentuale di quadri e dirigenti soddisfatti del lavoro attuale sia cresciuta, raggiungendo il 61% (nel 2022 era del 47%), l’Italia si colloca al penultimo posto, seguita solo dal Portogallo (49%) e ben lontana dai più virtuosi come Repubblica Ceca (78%), Romania (73%) e Regno Unito (73%). E sotto il profilo retributivo? I soddisfatti sono solo il 57% (Fonte: Hays Italia).

Stipendi inadeguati

Che uno dei nodi legati all’insoddisfazione sia da rintracciare nella retribuzione si evince anche da un altro dato: per più di un professionista su due lo stipendio è percepito come inadeguato rispetto alla propria mansione o anzianità di servizio (Fonte: Istituto Piepoli, Indagine sui lavoratori). La percezione negativa sale tra i lavoratori dipendenti, operai in primis. Su questo influisce l’inflazione e la perdita di valore di acquisto registrata ultimamente. Due su tre dichiarano di avere una minore capacità di spesa e sacrificano prima di tutto le spese accessorie, come le vacanze. In numero minore, ma è una grossa sconfitta sociale, sono coloro che dichiarano di rinunciare a spese essenziali, come la gestione dei figli e la salute.

La questione salariale

A dire il vero, il Rapporto sul Benessere equo e sostenibile in Italia, elaborato a dicembre 2023 da ISTAT, sottolinea come il reddito lordo pro capite disponibile sia aumentato del 14,9% rispetto al 2019, superando i livelli precedenti la crisi pandemica. «Gli ultimi dati disponibili» si legge, «evidenziano che nel 2021 il reddito medio delle famiglie (33.798 euro) è tornato a crescere sia in termini nominali (+3%) sia in termini reali (+1%)». Eppure, sempre tra le righe del rapporto, si scorgono conclusioni che sembrano in contraddizione con il miglioramento del benessere: «La quota di coloro che dichiarano di aver visto peggiorare la propria situazione economica rispetto all’anno precedente, che nel 2019 era pari al 25,8%, cresce nei tre anni successivi fino a raggiungere il 35,1% del 2022, un livello mai raggiunto in precedenza, per poi ridursi nel 2023 (33,9%)». In sintesi, un terzo dei lavoratori oggi sta peggio di prima. E il perché si deduce da altri dati sui salari, calati del 3,4% tra il 2019 e il 2022 (Fonte: Openpolis).

Il pre-pandemia

Il nostro è uno dei Paesi che ancora non sono tornati alla situazione pre-pandemia: il quarto con la riduzione più pronunciata insieme ai Paesi Bassi, dopo Repubblica Ceca (-7,2%), Grecia (-5,9%) e Spagna (-3,6%). Se nel 2019 la media salariale italiana era pari a 46.460 dollari, siamo passati nel 2022 a meno di 45mila. La variazione maggiore si è verificata nel passaggio tra 2021 e 2022, quando il valore si è ridotto del 4,8%. Nel frattempo l’inflazione è schizzata e il potere d’acquisto si è sbriciolato. Nel 2022, infatti, i prezzi al consumo hanno registrato un aumento in media d’anno dell’8,1%, segnando l’incremento più ampio dal 1985 (quando fu del 9,2%), con un picco nel quarto trimestre (+11,7%). Esaurita la rapida ascesa dell’inflazione, nel 2023 le spinte sui prezzi sono risultate nel complesso piuttosto moderate. Ma per i lavoratori la stangata è rimasta, in assenza di aumenti salariali che bilanciassero le maggiori spese legate all’inflazione.

La demotivazione

Se c’è un elemento che ha caratterizzato la pandemia dal punto di vista della vita lavorativa è stato quello della disaffezione al lavoro. Un mancato senso di appartenenza all’attività professionale che accompagna la propria vita. In tanti hanno deciso di prendere strade alternative e in tutto il mondo, Italia compresa, ha preso piede la tendenza a dimettersi, dando vita al fenomeno noto come Grandi Dimissioni. Una fase cui ha fatto seguito il quiet quitting, ovvero un trend volto a una riduzione del proprio impegno lavorativo fino a produrre il minimo indispensabile: si resta al proprio posto, si conserva lo stipendio, ma senza ammazzarsi di fatica e riducendo al lumicino gli sforzi. Anche questa è un’attitudine globale, messa in luce dai dati emersi nel 2023.

Picchi storici

I risultati sono chiari: lo stress e l’insoddisfazione dei lavoratori hanno raggiunto picchi storici (44% del campione), mentre il quiet quitting si è diffuso, secondo l’indagine, tra il 59% dei lavoratori (Gallup, State of the Global Workplace). E in Italia? A generare scarsa empatia, un basso grado di coinvolgimento (5%) e stress (46%), sono soprattutto gli stili manageriali. In più, si reputa apertamente ostile al proprio impiego il 26% dei lavoratori over 40 e il 18% degli under 40. Speculare è il dato sulla soddisfazione lavorativa, che anche questa indagine riporta come estremamente contenuta. Si sente pienamente soddisfatto solo l’8% degli under 40 e il 4% degli over 40. Una percentuale più o meno dimezzata rispetto alla media europea, pari al 13%.

Burnout in aumento

Le richieste dei dipendenti si concentrano su tre aspetti: riconoscimento (41%), stipendi proporzionati alle qualifiche (28%) e attenzione al benessere psico-fisico (16%). Il malessere lavorativo è un altro morbo che si diffonde a macchia d’olio tra i lavoratori, anche in Italia. Campanello d’allarme sono le denunce presentate all’INAIL per malattie professionali legate a disturbi psichici e comportamentali. Nel primo trimestre 2024 sono arrivate all’Istituto oltre 22mila segnalazioni, con una crescita del 17,9% rispetto allo stesso periodo del 2023.

Più in generale, le persone che manifestano disagio sul fronte lavorativo sono aumentate del 109,7% rispetto allo stesso periodo del 2023. Dietro la mancanza di serenità si celano soprattutto la fatica a bilanciare la propria vita personale con quella lavorativa e la non crescita professionale (Fonte: Unobravo). Il 28,3% di coloro che hanno chiesto supporto psicologico nello scorso anno ha dichiarato di avere delle difficoltà proprio sul fronte professionale. Di questi, più della metà (57,3%) manifesta una sofferenza generata dal lavoro e il 10% attribuisce all’ambito lavorativo le principali complicazioni che si trova ad affrontare nella quotidianità.

Dove si concentra il disagio

Quali sono le Regioni dove si concentra il disagio? Sono i poli lavorativi per eccellenza, quindi in primis la Lombardia (27%), seguita dal Lazio (10%). In particolare, Milano (13%) e Roma (8%) sono le città dove i lavoratori si sentono peggio. Seguono Emilia Romagna (9,4%), Veneto (8,9%) e Piemonte (8,6%). E proprio quest’ultima è la Regione che, paragonando i dati relativi allo stesso periodo del 2023, mostra il maggiore incremento (+146,7%) rispetto alla media italiana, attestata al 109,7%.

I problemi sembrano attenuarsi al Sud. Qui le percentuali più alte in questo caso sono quelle di Campania (5,6%), Sicilia (4,3%) e Puglia (4,2%). Le donne, infine, sono le più esposte al rischio di burnout: il 66,3% cerca maggiormente supporto psicologico per problematiche connesse al lavoro. Per gli uomini, invece, la percentuale si ferma al 33,7%. Più in dettaglio, bussano alla porta dello psicologo le persone che probabilmente si trovano nella prima fase della loro carriera professionale: il 62,9% ha tra i 25 e i 34 anni, mentre il 22,8% è compreso nella fascia che va dai 35 ai 44 anni.

La difficoltà delle imprese 

L’insoddisfazione dei lavoratori ha anche un’altra sfaccettatura, tutta a carico delle aziende. Non è solo questione di mancanza di produttività (per il solo disagio psicologico si stimano 136 miliardi all’anno di perdite a livello mondiale), ma anche di mancato benessere lavorativo, che va a braccetto con le difficoltà che riscontrano le imprese nel reclutare le risorse necessarie al proprio organico. «Considerando le stime sul PIL pubblicate dal Governo nella NADEF e le valutazioni dei principali istituti internazionali», si legge nel rapporto Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine 2024-2028 di Unioncamere, «il Mercato del lavoro italiano potrà esprimere un fabbisogno compreso tra 3,1 e 3,6 milioni di occupati».

Non saranno facilmente reperibili, complice anche la crisi demografica. «Le necessità di sostituzione dei lavoratori in uscita dal Mercato del lavoro determineranno la gran parte del fabbisogno, per 2,9 milioni di unità nel quinquennio, pari a una quota dell’80% nello scenario positivo e del 92% in quello negativo». I rischi maggiori saranno proprio per i comparti per i quali si prevede una maggiore incidenza della replacement demand sul fabbisogno. Ad esempio, le filiere legno e arredo, dove la componente in sostituzione sarà il 97% del fabbisogno dello scenario positivo. Poi meccanica e robotica (96%), la Pubblica Amministrazione (92%), e infine la sezione dei lavoratori indipendenti (96%).              

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📸 Credits: Canva   

Articolo tratto dal numero del 15 ottobre 2024 de il Bollettino. Abbonati!

Giornalista professionista, classe 1981, di Roma. Fin da piccola con la passione per il giornalismo, dopo la laurea in Giurisprudenza e qualche esperienza all’estero ho cominciato a scrivere. All’inizio di cinema e spettacoli, poi di temi economici, legati in particolare al mondo del lavoro. Settore di cui mi occupo principalmente per Il Bollettino.