mercoledì, 16 Aprile 2025

Canfarini, BIP: «Fullgevity, il nuovo significato del benessere»

Quattro «erre» per il benessere, per cambiare e migliorare la propria vita e il proprio lavoro: riprogettare, riconnettere, ripensare, rileggere. Cosa significa? E come si fa?

«Fullgevity è un neologismo che rappresenta un approccio moderno e circolare alla nostra esistenza, fondato sulla ricerca di senso e armonia» dice Alessia Canfarini, Equity Partner e Head of CoE Human Capital di BIP, autrice di Fullgevity. La pienezza e la nuova longevità, edito da FrancoAngeli.

«È una filosofia e una visione che integra appunto quei quattro pilastri e principi cardine, con l’obiettivo di reinventare il modo in cui viviamo e affrontiamo le transizioni personali e professionali».

Il termine si distingue dalla longevità, spostando il focus dalla mera estensione della vita alla sua qualità, coerenza e intensità. Fullgevity è quindi pienezza e continua evoluzione, punta a una vita completa, in cui le persone possano integrare lavoro, relazioni, ambiente e benessere in modo nuovo, positivo. Coltivando il loro potenziale in ogni ambito.

Perché queste quattro azioni sono alla base di tutto?

«È un invito a vivere pienamente in ogni fase della vita, valorizzando il senso di ciò che facciamo e con un approccio consapevole verso il cambiamento. Ed è un percorso in quattro fasi. Innanzitutto, riprogettare significa ridisegnare il nostro cammino, superando modelli tradizionali di successo e integrando il lavoro, la spiritualità e le relazioni in modo coerente e armonico. Come farlo? Passando dalla progettazione individualistica a una visione orientata alla collaborazione e alla sostenibilità».

Quindi, dopo il primo passo, il percorso come procede?

«Riconnettere implica un ritorno alle nostre emozioni e al rapporto con gli altri, ma anche con l’ambiente. È importante stabilire un equilibrio sostenibile tra ciò che siamo e il contributo che diamo al Mondo. Significa ricongiungere il proprio mondo interiore con l’esterno, trovando equilibrio tra spiritualità, valori e relazioni».

E poi?

«Ripensare ci invita a riconsiderare i nostri spazi – fisici e interiori – come luoghi da abitare con consapevolezza, costruendo una vita autentica e orientata al benessere condiviso. Significa anche riflettere sugli spazi e i contesti che abitiamo, in una chiave di design connesso alla natura. Non è semplicemente abbandonare ciò che non funziona, ma piuttosto abbracciare la possibilità di esplorare nuove strade. È un invito ad accettare l’imprevedibilità della vita, costruendo una realtà dove lavoro e vita siano in armonia. La pienezza è una scelta che richiede coraggio e pratica costante».

Infine, cosa si intende per rileggere?

«Reinterpretare le esperienze passate, trovando nuove chiavi di lettura per nutrire il nostro presente e futuro. Si tratta di ripercorrere i nostri percorsi personali, abbracciando la capacità di “lasciare andare” ciò che è superfluo e concentrandosi sull’essenziale, come nel caso della pratica giapponese del Danshari, per fare spazio a ciò che davvero conta».

Per fare tutto ciò, cosa serve?

«Innanzitutto, un cambio di mentalità: accettare che la pienezza non è qualcosa di statico, ma una continua evoluzione. È utile praticare la gratitudine e la consapevolezza, riconoscendo valore anche nei momenti di incertezza o difficoltà. Dobbiamo anche coltivare la nostra capacità di immaginazione e progettualità, rimanendo aperti a nuove possibilità e opportunità di crescita».

Da dove parte questo suo percorso di riflessione?

«Il punto di partenza è una domanda cruciale: come possiamo integrare il senso di ciò che siamo e facciamo nella nostra vita e nel nostro lavoro? La pandemia e il periodo successivo hanno imposto una pausa globale e una riflessione collettiva su cosa significa davvero “essere”. Molte persone si sono trovate a rivedere le priorità, a riscoprire passioni dimenticate o a mettere in discussione l’idea stessa del successo tradizionale. Ripensare la vita e il lavoro significa riconoscere che non siamo fatti per vivere in compartimenti stagni: c’è bisogno di flessibilità, di spazi per sperimentare e stabilire connessioni importanti».

Tra le varie considerazioni contenute nel libro, emerge anche il concetto di taskification, di che cosa si tratta?

«Rappresenta l’ossessione per il fare incessante, in cui ogni momento sembra debba essere riempito di compiti e attività. Questo modello ci sta rendendo incapaci di fermarci, riflettere e apprezzare il senso del nostro agire. Il lavoro totale ci porta alla disconnessione: perdiamo il legame con le nostre emozioni e con ciò che conta davvero per noi. È fondamentale riscoprire un equilibrio, dove il lavoro non sia solo una lista di compiti, ma una parte significativa della nostra esistenza».

Si possono fare esempi di come ripensare il lavoro possa essere tradotto in azioni pratiche?

«Guardando a spazi e tempi con occhi nuovi. Per esempio, il concetto di life design invita a definire nuove possibilità per la nostra carriera. Non esiste una sola via giusta per procedere, ma molteplici strade che possiamo esplorare. A livello organizzativo, è importante creare contesti che rispettino l’equilibrio tra lavoro e vita privata, promuovano il benessere e abilitino la creatività e la sperimentazione. Le aziende che oggi stanno implementando settimane lavorative ridotte o sperimentano il co-working verde dimostrano che è possibile cambiare paradigma».

Pienezza e connessione come si collegano al ripensamento del lavoro?

«La pienezza è il contrario del vuoto che spesso percepiamo nella nostra routine. Si raggiunge quando riusciamo a integrare mente, cuore e azione. Questo vale anche nel lavoro: sentirsi parte di un progetto significativo, sapere che il nostro contributo ha un impatto e lavorare in un ambiente che rispetta i nostri valori personali può rendere il lavoro più vicino a un’esperienza di pienezza. Allo stesso tempo, serve riconnetterci con ciò che ci dà energia, con le persone attorno a noi e con le motivazioni più profonde».

Quali possono essere strumenti e passi concreti per ripensare la propria vita professionale?

«Ad esempio, nel libro parlo del modello CoFIND, che ruota attorno a cinque pilastri, dalle cui iniziali prende il nome: Connettere, Fare, Imparare, Nutrire e Disseminare. È una guida per chiunque voglia ridisegnare uno spazio personale o lavorativo che ispiri innovazione e benessere. Un altro esempio è l’adozione e l’utilizzo – che suggerisco – del “Manifesto del life design”, che aiuta a chiarire priorità e a prendere decisioni radicate nei propri valori».

In cosa consiste questo manifesto?

«Rappresenta un’altra guida concettuale e pratica, prima per ripensare, poi per agire. Si basa sull’idea che le scelte della nostra vita non siano rigide o immutabili, ma possano essere modellate consapevolmente con un approccio creativo e intenzionale. È ispirato ai principi del Design thinking, applicandoli non solo ai prodotti o servizi, ma alla propria esistenza».

Quali sono alcuni punti fondamentali e linee guida?

«Per esempio, avere auto-disciplina più che disciplina, ovvero coltivare la curiosità per scoprire il proprio punto di partenza e quello di arrivo. Lasciare che il proposito personale guidi le decisioni, anziché dipendere da autorità esterne. Sperimentare continuamente nuove strade, anche attraverso prove imperfette. Abbracciare l’idea che il cambiamento sia un processo itinerante e continuo. L’essenza del manifesto è un invito a vedere la propria vita come fosse un progetto: costruire scenari, provare alternative, e imparare dagli errori lungo il percorso».

Le aziende e le organizzazioni possano contribuire a promuovere questa visione di pienezza?

«Assolutamente sì. Le imprese devono evolversi da semplici “fabbriche di lavoro” a spazi di co-creazione e benessere. Implementare il concetto di caring organization significa mettere al centro le persone, creando ambienti che non siano solo produttivi, ma anche ispiratori. Promuovere il life design, la flessibilità, il supporto al benessere e la connessione con la comunità può fare la differenza. Questa visione della pienezza non è solo ispirazione, ma un percorso praticabile e trasformativo».

C’è poi anche il tema della connessione con l’ambiente. In cosa consiste questo tipo di relazione?

«Va oltre il semplice rapporto utilitaristico con la natura. Il nostro ambiente – fatto di spazi urbani, naturali e sociali – non è solo un contenitore passivo, ma una parte attiva e influente della nostra vita. Bisogna riconoscere come l’ambiente contribuisce al nostro benessere psicofisico e come noi, a nostra volta, possiamo contribuire alla sua rigenerazione. Per esempio, ci sono studi specifici che dimostrano come anche solo guardare un albero dal balcone possa ridurre lo stress e migliorare la concentrazione. Certo, un albero è molto poco. Ce ne vogliono molti di più, anche come metafora verso una condizione migliore».

Nel quotidiano, cosa si può fare per rafforzare questa connessione tra persone e ambiente?

«Possiamo iniziare a praticare quello che io chiamo l’intenzionalità ambientale. Significa essere consapevoli dell’impatto delle nostre scelte quotidiane – dalla mobilità all’alimentazione, fino alla gestione degli spazi personali. Creare spazi verdi nelle città, ad esempio, non è solo una questione estetica. È un investimento nella salute pubblica e nel tessuto sociale. Guardiamo al Green Urbanism e agli approcci innovativi come quello del New European Bauhaus. Questo movimento non solo rende le città più verdi e sostenibili, ma aiuta anche le comunità a riconnettersi attraverso un’estetica inclusiva».

Cos’è la biofilia e perché è importante?

«È l’amore innato per la natura e per tutto ciò che è vivo. Nelle città, possiamo tradurla in azioni concrete come piantare alberi, introdurre giardini pensili o creare quartieri biofilici, dove il verde sia parte integrante della vita quotidiana. C’è una frase che amo: la natura non è un lusso, è una necessità. Investire su spazi naturali rigenerativi, anche attraverso pratiche come i “bagni nella foresta”, permette alle persone di ridurre ansia e stress e persino di migliorare la coesione sociale nei quartieri».

Quali città stanno applicando questi concetti?

«Di casi simili ce ne sono diversi e per fortuna sono anche in aumento. Faccio un esempio vicino e uno molto lontano geograficamente. Da un lato, penso al progetto del Porto di Mare a Milano, che reinterpreta un’area periferica in zona Corvetto attraverso interventi di rigenerazione urbana a basse emissioni di carbonio. Dall’altra parte del Mondo, abbiamo le biblioteche nei quartieri popolari di Medellín, in Colombia, che uniscono cultura e spazi verdi per trasformare il tessuto sociale. L’importante è che ogni progetto nasca da un dialogo con la comunità locale, perché la connessione con l’ambiente non può essere imposta dall’alto: deve essere il risultato di una relazione autentica e collaborativa». ©️

Articolo tratto dal numero del 15 aprile 2025 de Il BollettinoAbbonati!

📸 Credits: Canva