giovedì, 17 Ottobre 2024

Tra sostenibilità e crescita: le sfide della nuova Europa

DiMarco Battistone

1 Giugno 2024
Sommario
Europa

L’Europa è a un bivio. Per cambiare ci vuole coraggio, mentre restando fermi si rischia di perdere terreno. All’orizzonte c’è l’ipotesi di una pur difficile modifica ai trattati, immutati dal 2009. Oggi, per competere in uno scenario globale dominato da grandi player come Cina o Stati Uniti, ma anche per soddisfare le proprie esigenze interne, una maggiore integrazione è necessaria.

«Dove si individuano la necessità e la convenienza di un’azione comune su un determinato fronte, condividere sovranità a livello europeo non significa penalizzare le sovranità dei singoli Stati. In queste aree di interesse comune, la competenza nazionale è solo sulla carta, in quanto si dimostra incapace di raggiungere risultati», dice Paolo Guerrieri, Professore di Economia a Sciences Po a Parigi.

Paolo Guerrieri, Professore di Economia a Sciences Po a Parigi

Bisogno di integrazione che è il focus del libro Europa sovrana: Le tre sfide di un mondo nuovo, scritto in collaborazione con Pier Carlo Padoan (Editori Laterza). Un dibattito cruciale, tanto più se si considera che la nuova Commissione dovrà traghettare il Green Deal varato nel 2020 nella sua fase più operativa (leggi di più qui).

«La rivoluzione verde significa una strategia di crescita sostenibile per l’Europa: questa è la grande sfida. Il peggior rischio è lo status quo. In questa fase, con un mondo frammentato, un’Europa che non riesce a integrarsi maggiormente rischierebbe davvero quello che si è sempre paventato, cioè la  sua dissoluzione».

Cosa significa oggi “Europa sovrana”?

«È un modo di sottolineare che siamo di fronte a un mondo radicalmente cambiato. Ormai lo riconoscono tutti. Ci sono stati degli shock ripetuti e in qualche modo concatenati, da ultimo quello delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Di conseguenza, l’Europa deve cambiare per rispondere a scenari  in larga parte inediti, acquisendo una propria sovranità, che però va distinta da quella che intendiamo normalmente, con riferimento ai singoli Paesi. Quella europea è mirata a favorire iniziative comuni in determinate aree e campi, non annulla né cancella gli spazi di autonomia nazionali, ma spinge i Paesi a unirsi per svolgere un’azione comune. Questo perché in diversi casi conviene agire come un insieme di Stati. La sovranità europea richiede dunque l’individuazione di questi terreni e nuove sfide, dove i membri troveranno vantaggi ad operare in comune».

Quali sono queste aree?

«Sono naturalmente svariate. Nel nostro libro cerchiamo di riassumerle in tre grandi sfide. La prima riguarda l’Europa dal suo interno: è il rilancio della crescita sostenibile. Una priorità, perché in questi anni il PIL europeo è cresciuto solo di poco, ma resta un parametro importante, perché determina le risorse che si possono poi destinare alle urgenze che vengono individuate attraverso le scelte politiche. Ma la crescita, per l’Europa come per gli altri maggiori Paesi, deve essere sostenibile, dunque non meramente quantitativa, ma anche di qualità. L’obiettivo è quindi seguire un percorso di sostenibilità ambientale, e sociale, le due dimensioni essendo strettamente concatenate.

Questa è la prima sfida: come si rilancia la crescita sostenibile? La rivoluzione verde, il Green Deal, può essere questa la leva per rilanciarla, al pari di quanto hanno fatto il Mercato interno negli anni ’90 e l’unione monetaria tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Si tratta soprattutto di riallocare le risorse verso beni e tecnologie che siano sempre più pulite e compatibili. Un’operazione che però deve andare di pari passo con il rilancio dell’industria e della produzione europee».

Qual è invece la seconda sfida?

«Riguarda il piano internazionale. Un progetto di transizione verde e rilancio sostenibile non si potrà realizzare senza che il resto del mondo si muova nella stessa direzione. Per questo, l’Unione Europea deve avere una presenza internazionale molto più attiva e assertiva di quanto non sia stata in passato. Negli ultimi vent’anni ci siamo occupati soprattutto di problemi interni all’UE, perché ritenevamo che questo bastasse. Oggi non è più sufficiente. bisogna muoversi all’esterno, affinché anche gli altri Paesi cooperino. E naturalmente sappiamo quanto questo sia difficile nel nuovo contesto internazionale, che ha subito mutamenti recenti e profondi.

Si è verificato il passaggio da un sistema globale basato su regole e istituzioni multilaterali a uno che è tornato, come accaduto molte altre volte nella storia, a basarsi sui rapporti di forza dei Paesi. Si rischia così di andare verso un’economia mondiale frammentata e divisa in blocchi. Ma non i due schieramenti di cui si parla, Cina e Stati Uniti, in una nuova Guerra Fredda. Questo è uno scenario poco probabile, perché in realtà ci sono molti altri Stati che non vogliono affatto schierarsi né da una parte né dall’altra: l’India, il Brasile, l’Indonesia, l’Arabia Saudita, il Sud Africa. Sono tutte potenze intermedie gelose della propria autonomia e preoccupate innanzitutto del loro sviluppo.

Andiamo, perciò, verso una multipolarità estremamente frammentata. Questo per l’Europa è rischiosissimo, perché l’economia europea ha bisogno di un’economia mondiale che resti in qualche modo aperta, anche se non si potrà tornare alla situazione di dieci o vent’anni fa».

Come affrontare uno scenario del genere?

«Nel libro affacciamo l’idea di un “multilateralismo a geometria variabile”. Di fronte all’attuale frammentazione, l’idea di un multilateralismo a tutto campo è abbastanza velleitaria e difficilmente realizzabile. Quello che invece si può fare, almeno su determinati terreni, sono iniziative di cooperazione mirate a evitare ulteriore disordine e quindi l’unilateralismo nelle scelte dei Paesi. Per esempio, accordi plurilaterali nel commercio e negli investimenti internazionali che coinvolgano le potenze che contano e divengano una specie di guardrail per le politiche e le iniziative degli Stati. Questo darebbe una minima capacità di coordinamento e di gestione».

Ma esistono i margini politici per agire in questo senso, a livello europeo?

«Questa è la terza grande sfida. Per fare quello che dicevamo ci vogliono risorse e mezzi politici di intervento, oltre che una capacità di decisione. La governance europea per com’è oggi è insostenibile, perché non è adeguata a gestire questa complessità. Si devono e si possono trovare più strumenti d’intervento, cambiando i processi decisionali interni, se necessario. Innanzitutto, passando, per certe politiche, da votazioni all’unanimità a votazioni a maggioranza, come si è fatto già in altri campi. In politica estera, per esempio, è molto importante che questo possa avvenire. Serve poi una governance economica rafforzata, cioè più disponibilità da gestire in comune, quindi fondi e iniziative a livello europeo, nonché un bilancio europeo che sia perlomeno rafforzato nella sua dimensione e reso più flessibile nella sua struttura. Infine, capacità decisionale, ovvero rinnovate procedure che non possono più essere quelle di un mondo che non esiste più».

Si può (e conviene) auspicare l’espansione di una sovranità comune a discapito delle singole sovranità nazionali?

«Questo è un aspetto fondamentale. La sovranità europea interessa quelle aree dove i singoli Paesi, pur godendo di autonomia, non sono in grado di ottenere risultati agendo da soli. Sono i cosiddetti beni comuni europei, dove solo un intervento unificato può ottenere risultati concreti. Agendo individualmente, i Paesi si scoprono in realtà impotenti rispetto a quello che vogliono fare. Spesso i singoli Stati sono incapaci di intervenire, perché la scala per un intervento efficace è troppo elevata.

Questa è la ragione per cui in questi casi condividere sovranità a livello europeo, alla fine, conviene a tutti. Per lo stesso motivo, il “richiamo della foresta” con cui oggi alcune forze politiche e movimenti invocano il ritorno a sovranismi nazionali è assolutamente velleitario e puramente demagogico. Non a caso, una delle contraddizioni più palesi è che anche i movimenti e partiti politici che affermano “vogliamo meno Europa”, quando stilano i loro programmi, come per queste elezioni, di fatto elencano una lista di cose su cui chiedono che l’UE intervenga».

Nel suo libro si parla di un processo di “integrazione differenziata”, per gruppi di Paesi. Come si può conciliare questo con l’esigenza di evitare la frammentazione?

«In vista di un allargamento dell’Unione Europea a nuovi Stati, come l’Ucraina e i Balcani, che comporterà una maggiore eterogeneità tra i membri, per raggiungere alcuni traguardi di maggiore integrazione non è detto che ci si debba muovere sempre tutti insieme non è detto che si possano raggiungere questi traguardi sempre muovendoci tutti insieme.

Agire in coordinamento è sempre prioritario, ove possibile. Ma non va affatto scartata l’ipotesi che su determinati terreni vi sia la possibilità di differenziare i percorsi di integrazione per gruppi di Paesi. L’euro, ad esempio, si è fatto così: ci sono oggi 20 Paesi che hanno una moneta in comune e ce ne sono altri 7 che hanno conservato le loro valute nazionali. Si parla solitamente di cerchi concentrici, ma noi preferiamo l’ipotesi di club di Paesi. Però, attenzione, non devono essere circoli esclusivi che guardano ai propri interessi; innanzitutto devono essere gruppi aperti a chi voglia poi farne parte e ci deve comunque essere un quadro, una cornice comune basata su un sistema di valori accettato da tutti. All’interno di un contesto unificante si possono poi immaginare integrazioni differenziate, per evitare che il vagone più lento ostacoli il movimento dell’intero treno».

Entrando nel concreto di questo processo di integrazione europea, possiamo ipotizzare un percorso definito su quali potrebbero essere le prossime fasi e in quali ambiti potremmo vedere sviluppi?

«La difesa è una delle aree prioritarie, assieme ad altre come l’energia e la politica industriale, che si prestano bene come laboratorio di costruzione di una sovranità comune. Per esempio, a marzo di quest’anno è stata pubblicata una strategia industriale europea per la difesa (EDIS). È un piano importante, dettagliato, che mette sul tavolo una serie di proposte concrete per rafforzare il settore europeo della difesa. In termini molto pratici, si tratta di creare quello che al momento manca. Oggi noi abbiamo dei Mercati separati, con una produzione inefficiente e costosa. Se si sommano i bilanci dei Paesi membri, l’Europa è seconda al mondo per spesa militare in senso complessivo, con oltre 300 miliardi di dollari all’anno. Una cifra di gran lunga inferiore agli 800 miliardi di dollari all’anno degli Stati Uniti, ma superiore, per esempio, alla spesa cinese.

Qual è il problema? Che molta di questa spesa va in doppioni di prodotti di scarsa efficienza e molto costosi, che alla fine servono poco. Tanto che noi abbiamo avuto grandi difficoltà a fornire all’Ucraina le armi e le munizioni che chiedeva e le abbiamo dovute comprare da altri, in primo luogo dagli Stati Uniti. Quello che questa strategia propone è integrare i vari Mercati nazionali in una realtà comunitaria compatta, aumentando la scala di produzione e rendendo più efficiente la spesa pubblica. In più, questo porterebbe un aumento della qualità e della specializzazione, perché una cosa è fare 27 tipi di carri armati, altra è farne uno o due unendo le forze».

Cosa comporta, nel concreto, l’implementazione di una strategia del genere per l’UE?

«Mettere in piedi, innanzitutto, un approvvigionamento e un finanziamento comuni, il che significa la volontà politica di mettersi insieme. In altri termini, deve instaurarsi una rinnovata fiducia tra gli Stati membri. Da questo punto di vista, bisogna superare gli interessi nazionali acquisiti, il che non è un affare di poco conto. È un passaggio che si compie quando si è consapevoli che questo è l’unico modo per avere domani una qualche possibilità di difendersi dalle aggressioni dei Putin di turno.

Bisogna che ci sia consapevolezza altresì della debolezza e vulnerabilità di un’Europa frammentata e dunque incapace di esprimere una sua capacità di difendersi. Ma tutto questo va fatto non certo per staccarsi dalla NATO o dagli Stati Uniti, ma per costruire un polo europeo forte all’interno di un sistema che deve restare basato sull’alleanza atlantica. Naturalmente, ci vorrà del tempo e la costruzione di un Mercato europeo integrato della difesa avverrà gradualmente».

Che tempistiche vede in concreto per questo progetto?

«È un tema dove ormai è maturata piena consapevolezza della necessità di proseguire di questo passo. Di conseguenza, nella nuova legislatura, già a partire dal prossimo anno,  non si esclude possa essere varato un progetto di incremento del fondo comune esistente con un finanziamento congiunto, nell’idea di procedere verso un approvvigionamento su scala europea. Io credo che questo possa essere un primo motore da accendere per il rilancio dell’integrazione, cioè di più Europa. Il settore della difesa potrebbe dunque fare da battistrada rispetto ad altri progetti che abbisognano di un’azione congiunta».

In ambito economico, uno step fondamentale di unificazione è la Capital Markets Union. Quali sono i prossimi passaggi per proseguire su questo percorso?

«Gli aspetti finanziari e monetari sono fondamentali. È vero che qui l’UE ha già fatto molto, con la moneta unica e l’unione bancaria, che va comunque completata. Mancano infatti ancora passaggi fondamentali, come l’istituzione di un fondo comune di assicurazione sui depositi, essenziale al completamento dell’integrazione dei sistemi bancari. L’assenza di un Mercato comune dei capitali è però la maggiore pecca.

Da oltre un decennio si parla di come formare una Capital Markets Union. Già allora era noto che questa fosse necessaria tanto quanto l’unione bancaria perché l’area monetaria unificata funzionasse efficientemente. In questi anni, però, abbiamo visto che tutti gli sforzi hanno prodotto pochissimi risultati. Oggi ne riscopriamo il bisogno. Perché? Per via di grandi sfide come la rivoluzione verde e il rilancio della crescita, che richiedono un’enorme massa di risorse per finanziarli. Investimenti che potranno essere pubblici tutt’al più per un 20%, ma che per il restante 80% dovranno essere privati, cioè effettuati dalle imprese. Ma è impossibile immaginare questa massiccia partecipazione del capitale privato alla transizione verde senza un Mercato dei capitali unificato a livello comunitario».

Di recente, il rapporto stilato da Enrico Letta su incarico della Commissione Europea ha ulteriormente sottolineato la necessità di portare avanti il percorso del Mercato unico. Crede questo possa cambiare il focus del dibattito?

«Nel rapporto Letta è stata messa in luce una motivazione nuova per agire. Non si tratta di dire che dobbiamo fare la Capital Markets Union come completamento dell’unione monetaria. O almeno non solo questo. Adesso si può dire che dobbiamo farla, perché altrimenti non saremo in grado di finanziare i grandi investimenti necessari per il rilancio della crescita sostenibile e della produttività. Questa è una spinta molto concreta, che sottolinea la necessità di usare i risparmi dei Paesi europei per investimenti fondamentali al rilancio europeo».

Quali sono le difficoltà tecniche dietro alla creazione di un Mercato dei capitali comune per l’Europa?

«Non credo che sia un problema tecnico, nel senso che le cose da fare sono abbastanza note: la convergenza sulle regole, le misure per stimolare gli investimenti sul Mercato dei capitali, il fatto che bisogna trasferire maggiori poteri a livello europeo, potenziando l’ESMA (European Securities and Markets Authority). Tutto questo è noto, ma la sfida è politica. Serve spiegare ai cittadini europei che, per la loro sicurezza e la loro prosperità, bisogna costruire un Mercato finanziario unificato che metta insieme e permetta di utilizzare i risparmi europei.

È importante mostrare come questo passaggio vada a vantaggio di tutti. Io credo che da questo punto di vista ci sia oggi una volontà politica rinnovata, lo si è visto anche al Consiglio europeo in cui è stato presentato il rapporto Letta. Le divisioni, tuttavia, continuano a esserci, perché c’è una buona dozzina di Stati, tra i più piccoli dell’Unione, che si oppongono a questa unificazione per privilegiare le loro rendite di posizione. Ciononostante, credo che una motivazione nuova e forte, unitamente a una consapevolezza sempre più diffusa del problema, possano indurre a un relativo ottimismo, pur con tutti gli ostacoli che conosciamo e di cui abbiamo parlato».

Puntare sulla trasformazione sostenibile e la crescita economica richiederà grandi investimenti. Al momento il Next Generation EU si avvia alla sua fase conclusiva. Dopo un periodo pandemico con una fortissima spesa a livello europeo e nazionale, parte una specie di “ritorno all’ordine” prefigurato tra l’altro nel World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale. Dove trovare lo spazio fiscale per nuove misure?

«Ci vorranno molte risorse per finanziare i molti investimenti. Inizialmente, sarà soprattutto il settore pubblico che dovrà fare da apripista, mostrando in concreto la direzione da percorrere, anche sostenendo la distribuzione dei costi, e dunque per evitare che l’asimmetria si trasformi in un ostacolo micidiale. Poi arriveranno gli investimenti privati, perché quando si creano le convenienze, il capitale privato ha tutto l’interesse a sfruttare le possibilità di produzione e di profitto.

Nel caso europeo, si sono molto esaltate le opportunità della trasformazione verde e i benefici che si potrebbero ottenere, una volta realizzata questa rivoluzione. È tutto vero, ma si sono sottostimati troppo i costi, che soprattutto all’inizio saranno molto elevati. Si tratterà di sostituire capitale ad alte emissioni, detto brown, con capitale a basse o zero emissioni, detto white. In più, si è sottovalutato il fatto che i costi di trasformazione sono più concentrati sui ceti più poveri e sui settori più marginalizzati. Il problema da affrontare è come rendere questa distribuzione dei costi meno iniqua. Altrimenti, è chiaro che si svilupperanno resistenze molto forti, come sta già avvenendo».

Come dovrebbe affrontare questa sfida il legislatore europeo?

«Innanzitutto, importante è che ci sia lucidità e trasparenza sulle cose che bisogna fare, soprattutto in tema di Green Deal. Se andiamo a vedere tutte le grandi rivoluzioni tecnologiche del passato, si è sempre avuta una successione di eventi che è partita da un’offerta di tecnologie nuove che gradualmente hanno soppiantato o si sono affiancate ad altre già esistenti. La politica in passato è venuta dopo, consolidando questi processi. Oggi no, in quanto sono gli Stati che sono dovuti intervenire di fronte a un clamoroso fallimento del Mercato, cioè l’eclatante sottostima dei danni ambientali e delle emissioni nocive. Questo vale per l’Europa, ma anche per gli Stati Uniti. È una trasformazione dai contenuti inediti che pone la grande sfida di trovare un equilibrio e un compromesso tra questo impulso esterno che viene da una forma di intervento dello Stato e la fondamentale azione che deve continuare a svolgere il Mercato».

Abbiamo già parlato della Capital Markets Union, ma ci sono altri mezzi per spingere i privati a contribuire a un cambiamento tanto radicale?

«Io credo che il problema maggiore sarà in questa fase di avvio, in cui devi avviare un nuovo paradigma tecnologico e di produzione. Al momento, l’Europa ha scelto una specie di mix di interventi fatto di incentivi, regolamentazioni e l’aumento dei prezzi delle emissioni nocive, attraverso un Mercato costruito per far pagare di più chi inquina di più. Teoricamente, a livello economico, questa è la scelta giusta, ma probabilmente bisognerà riequilibrare un po’ la parte di incentivi. È stata secondo me sottodimensionata rispetto al prezzo delle emissioni e alle regolamentazioni».

Come si mette in moto un processo tanto ampio?

«Bisogna introdurre misure ragionevoli e mirare a ottenere il consenso necessario per portare avanti queste trasformazioni. Le risorse sono un problema, ma molto dipenderà dalle politiche e dal contenuto degli interventi che verranno messi in atto».

Tanto per l’integrazione quanto per la rivoluzione verde, è più questione di spazio politico che fiscale?

«C’è bisogno di entrambe le cose. Sono d’accordo con chi sostiene che un rafforzamento dell’unione monetaria possa avvenire solo superando quest’anomalia dell’avere una voce sola in campo monetario, una politica monetaria unificata, una Banca Centrale e poi 27 capacità di bilancio o fiscali. Questa centralizzazione da un lato e il decentramento totale dall’altro vanno superati. Per questo, sono favorevole all’idea di una capacità fiscale comune in Europa. Però dobbiamo anche considerare che questo può essere un obiettivo ideale a cui tendere, perché non è che si creerà dall’oggi al domani. Vedo invece un percorso possibile attraverso i terreni concreti di cui stiamo dicendo».

Quali sono gli obiettivi immediati per raggiungere una vera e propria capacità di bilancio europea?

«Bisogna perseguire obiettivi mirati di integrazione, ad esempio, nei campi della difesa e dell’ambiente. Contestualmente, si possono creare delle capacità di spesa e di finanziamento comune, come è stato per Next Generation EU. Si tenga conto del fatto che la quantità di titoli europei in circolazione, i cosiddetti Eurobond, ha superato ormai il trilione di euro rispetto a una quantità assolutamente marginale in passato. Quello che possiamo fare è rafforzare la capacità di intervento comune, non attraverso un altro Next Generation EU, che non può essere replicato, ma mediante altre iniziative similari di fondi comuni, di finanziamento, approvvigionamento e spesa. E questo arerà il terreno su cui poi sarà molto più agevole arrivare a disegnare una vera e propria capacità fiscale comune, che poi comporterà comunque mutamenti importanti a livello politico all’interno dell’Unione Europea».                                             ©

Articolo tratto dal numero dell’1 giugno 2024 de il Bollettino. Abbonati!

📸 Credits: Canva

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".