mercoledì, 16 Ottobre 2024

Disallineamento Fed-BCE: come non rimanere scottati

Sommario
Fed

Siamo agli sgoccioli del testa a testa tra Banca Centrale Europea e Federal Reserve. «Le importazioni di beni dagli Stati Uniti presenteranno senza dubbio dei costi più elevati a causa di un dollaro di valore più alto, e potrebbero complicare la situazione dell’ultimo miglio del ritorno dell’inflazione verso il target del 2%» dice Fabio Cappa, Institutional Client Manager di Raiffeisen Capital Management. «Acquistando dall’America, rischiamo di importare inflazione». Finora affiancate nella politica dei tassi, BCE e Fed sembrano molto vicine al disallineamento (leggi di più qui). Almeno se – come prevede l’ampia maggioranza degli analisti e il consenso dei Mercati – nel meeting di politica monetaria del 6 giugno il board di Francoforte deciderà per un primo taglio.

A sospingere l’anticipo europeo, un’economia in netto rallentamento – è cresciuta del solo 0,3% nel primo quarto – e un’inflazione in chiara riduzione verso i target. Le stesse ragioni, ma di verso opposto, che spingono la Fed a esitare: un’economia in forte crescita, ma soprattutto un’inflazione che sta avendo un piccolo ritorno di fiamma, con un aumento dal 3,2% di febbraio al 3,5% di marzo. Ma questa mancata sincronizzazione ha un costo, che potrebbe pesare soprattutto sull’Europa e sulla sua ripresa.

Come deve organizzarsi l’investitore per non rimanere scottato da questa inversione di politica monetaria?

«Quello che appare all’orizzonte a livello globale sono delle aspettative di tagli dei tassi fortemente ridimensionate dall’inizio dell’anno a ora. All’inizio dell’anno, i futures sui Fed funds, anziché gli swap sugli overnight, quindi non parlo di previsioni degli economisti, che possono essere smentite, ma di posizioni assunte dal Mercato, ipotizzavano sei o sette tagli da 25 basis points per tutto il 2024. Ora, per quanto riguarda la BCE, se ne prezzano 2 quasi certi, da 25 punti base l’uno, e all’80% un terzo il 12 dicembre, quando si terrà l’ultimo meeting BCE dell’anno. Il primo invece, che dovrebbe avvenire il 6 giugno, è dato al 93,7%.

Quello che sta accadendo è una sorta di decoupling, uno sdoppiamento tra la politica monetaria americana e la nostra. Noi abbiamo bisogno dei tagli dei tassi, perché la nostra economia non va bene come quella americana. Il PIL USA crescerà nelle stime attuali del 2,2% nel corso del 2024, mentre in Europa siamo a un +0,5. Quindi, se negli Stati Uniti il fatto che il taglio dei tassi non sia più una priorità non dovrebbe preoccupare più di tanto i risparmiatori e i Mercati, in Europa i tagli devono arrivare».

Fabio Cappa, Raiffeisen Capital Management

Potrebbero esserci effetti negativi, soprattutto derivanti dall’aumento del costo delle importazioni, nel caso, probabile, di un disallineamento tra la politica monetaria della Fed e quella della BCE?

«Il ruolo dei banchieri centrali europei è più complesso, difficile, scomodo rispetto a quello della Fed, perché se da un lato Francoforte deve tagliare, perché l’economia non va, dall’altro, lo sfasamento temporale atteso tra l’allentamento della politica monetaria UE e quella USA sta già avendo un impatto sulla valuta, sull’euro/dollaro. Sappiamo che i Mercati fanno confluire risparmio e investimenti dove i tassi sono più alti, dove c’è una maggiore remunerazione, e il fatto che l’euro sia passato da quota 1,11 dollari di inizio anno fino a sfiorare 1,06 prima del rimbalzino di questi ultimi giorni è un fatto abbastanza eloquente. Fa da cartina tornasole di una situazione già annunciata. I tassi americani resteranno più alti rispetto all’Eurozona e il dollaro si rafforza. Il che è come dire che l’euro si svaluta».

Anche al netto del possibile aumento delle esportazioni derivante dalla svalutazione dell’euro, crede che l’economia ne sarà generalmente svantaggiata?

«Dipende da che faccia della medaglia guardiamo. Noi abbiamo un surplus positivo verso gli Stati Uniti. Ogni anno entrano in Europa merci americane per 375 miliardi di dollari, ma ne escono nella direzione opposta 577 miliardi, valore netto di 202 miliardi a nostro favore e un total trade di 952 miliardi. Di conseguenza, se parliamo di impulso all’economia, essendo importatori netti, una valuta più debole non può che farci piacere. Non dimentichiamo però il problema che è riemerso ormai tre anni fa, cioè l’inflazione, della quale ci eravamo completamente dimenticati. Una svalutazione da un lato agevolerebbe la nostra economia, ma dall’altro ci farebbe inevitabilmente importare inflazione. Questa soluzione non è da mettere né dietro la lavagna né in prima fila, dipende da che lato la si guarda».

Quali sono le asset class da tenere d’occhio in un contesto europeo potenzialmente più espansivo e quali sono invece le prospettive a cui guardare in uno scenario a tassi fissi – e alti – come continua a essere quello USA, al momento?

«Dal punto di vista equity, non ho alcun dubbio che gli Stati Uniti  d’America continueranno a sovraperformare l’Europa. Se non si tagliano i tassi è perché l’economia attualmente va bene e dunque fa utili. E se producono ricavi le aziende saranno ovviamente premiate: su questo non ci piove. Si tratta di un punto fermo. In più, cosa accade su questo shift temporale sul primo taglio della Fed? Che quelle asset class, come le small and medium cap, per le quali si auspicava un recupero in questo 2024, dopo aver sottoperformato le aziende a grande capitalizzazione, dovranno attendere ancora un po’.

Dai numeri della stagione degli utili appena conclusa proprio in queste ore, le piccole e medie capitalizzazioni sono, ancora una volta senza lasciare alcuno spazio a particolari colpi di scena, quelli che hanno beneficiato di meno. Se guardiamo allo Standard & Poor’s 100, cioè le 100 imprese con la maggiore capitalizzazione, la crescita degli utili media è del 5,15% nel primo trimestre 2024. Un valore che rappresenta una sorpresa positiva dalla media delle previsioni annunciate dagli analisti, perché ha battuto del 9,79% le attese del Mercato. Se andiamo a vedere lo stesso identico dato sul Russell 2000, cioè le società a media capitalizzazione, finora siamo a un -9,16%, quindi una decrescita degli utili nei primi tre mesi dell’anno, seppur con un piccolo accenno positivo totalmente inaspettato, del 3,83.

Insomma, abbiamo le società grandi che crescono in termini di guadagni e quelle piccole, che invece loro malgrado hanno una maggiore dipendenza dai tassi d’interesse, che vedono invece una diminuzione. È questo lo spaccato all’interno dell’asset class equity US, che è quella da preferire».

Qual è, dunque, in termini di stance, di postura dell’investitore, l’approccio giusto da adottare per cogliere i vantaggi della crescita americana?

«Oltre al fatto che le imprese a grande capitalizzazione sono decisamente meglio delle medie, direi anche che in questo momento growth va meglio di value. Nell’ambito growth, in particolare, non vedo assolutamente nessuna bolla sull’intelligenza artificiale. Nonostante le performance da paura, il differenziale storico tra le proiezioni di prezzo e rendimenti del super tech statunitense è migliore rispetto a quello delle società value, in termini di forecast, quindi non di dati attuali. Lo spread non è ancora sui massimi assoluti, quindi c’è un margine sul quale è possibile operare. D’altronde, l’intelligenza artificiale è una di quelle cose che sconvolgono la vita di generazioni: io la paragono alla scoperta dell’elettricità, del telefono o di internet. Cambierà in un futuro prossimo non troppo lontano in maniera esponenziale il nostro modo di vivere e i nostri investimenti».

Oltre all’Intelligenza Artificiale, quali sono gli altri temi e settori che potrebbero beneficiare maggiormente della situazione?

«Una categoria di aziende che ricomincerà con rinnovato entusiasmo a macinare, probabilmente nella seconda parte di questo anno, sono quelle legate alla transizione energetica. Il settore  Green è stato fortemente penalizzato nel 2022 e nel 2023 a causa degli aumenti dei tassi d’interesse, e a dire il vero ci si sarebbe aspettati un recupero imminente a partire già dalla prima parte del 2024, se non fosse stato per questo shift nelle prospettive di taglio.

Capire il perché non è affatto difficile. Basta soffermarsi a riflettere con attenzione al contesto di Mercato. Le società legate alla transizione energetica, come potrebbero essere quelle che si occupano di energia eolica o di solare, sono imprese che hanno bisogno di capital expenditures, di investimenti elevatissimi in fase di partenza, soprattutto per gli impianti greenfield, quindi per infrastrutture costruite da zero. Poi, nelle fasi di gestione ordinaria negli anni successivi, hanno costi più bassi. Esattamente il contrario del fossile, che non costa tantissimo in fase di installazione dell’infrastruttura, ma drena risorse quotidianamente per tutto il suo ciclo di vita.

Di conseguenza, le aziende Green che nel 2019 e nel 2020 hanno vinto grandi appalti pubblici per la realizzazione di parchi eolici o solari, ad esempio, avevano presentato delle offerte con i tassi di quel momento, studiando i loro margini di profittabilità sulla base di un quadro finanziario che non esiste più. Nel 2020, si sono trovati nella stessa situazione delle famiglie con mutui a tasso variabile. Non rientravano più e hanno dovuto fare marcia indietro, magari dando disdetta a gare già vinte. Qualcuno ha pagato penali, con conseguente crollo del fatturato e delle prospettive di redditività».

Ma le prospettive stanno cambiando?

«Abbiamo una fase di stabilizzazione, dove si fanno gare con prospettive completamente diverse, tutto ciò che è legato alla transizione energetica, probabilmente non dal terzo trimestre, ma dal quarto in poi, potrebbe tornare alla ribalta. Naturalmente, a meno di avere novità dal punto di vista del caroprezzi, dell’inflazione. Dal punto di vista dell’investitore, è una prospettiva allettante. Va ricordato che oggi compriamo questi titoli con delle minusvalenze importanti sui prezzi di due o tre anni fa».

È una ripresa che coinvolge l’ambito ESG (Environment, Social, Corporate Governance) in generale?

«Assolutamente sì. La sostenibilità non è una moda, come dico sempre, e se tra 5 anni la sigla ESG non esisterà più è perché la finanza sarà solo sostenibile. Si sta andando in quella direzione, e con due guerre, una crisi energetica, quello che sta accadendo al fossile, è inevitabile che nel 2022 ESG sia stato messo da parte. Quando si tende a liquidare asset per paura della volatilità dei Mercati, si vendono le posizioni in cui si guadagna o si perde? Senza dubbio dove si guadagna, è un fatto puramente psicologico. E si dà il caso che ESG è stato dalla sua nascita un outperformer. Tanto che già nel 2023, se guardiamo l’MSCI World rispetto all’MSCI World ESG, è tornato a esserlo. Per cui non ho nessun dubbio che il futuro sia legato alla sostenibilità».          ©

Articolo tratto dal numero dell’1 giugno 2024 de il Bollettino. Abbonati!

📸 Credits: Canva

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".