giovedì, 17 Ottobre 2024

Fuga dei cervelli: i settori STEM fanno i conti con il brain drain

Sommario
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Gli effetti della fuga dei cervelli sullo sviluppo del Paese sono incalcolabili. L’esercito della Scienza tricolore oggi si affievolisce nei settori più gettonati dal Mercato. E si rischia così una vera e propria paralisi sul fronte della crescita. «Un dottorando percepisce meno di 1.300 euro al mese senza contributi. Qualsiasi azienda o università estera offre di più. Ed è così che perdiamo opportunità e un capitale non quantificabile», dice Giancarlo Fortino, Professore ordinario di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni presso il dipartimento di Ingegneria Informatica, Modellistica e Sistemistica dell’Università della Calabria e Professore “visiting” e “distinguished” di diverse università straniere: dagli States alla Cina, dall’Europa all’Australia. Fortino, delegato del rettore alle relazioni internazionali extra UE è da quattro anni consecutivi l’unico italiano presente nella Highly Cited Researchers di Clarivate, la classifica mondiale dei ricercatori più influenti nell’ambito della Computer Science.

Che cosa comporta la fuga dei cervelli ora che la transizione digitale è ormai d’obbligo per mantenere la competitività?

«Partiamo da un principio indiscutibile: fare ricerca non deve essere una missione. La fuga dei cervelli in campo informatico è a un livello più alto rispetto ad altri settori. La quasi totalità dei laureati di primo e di secondo livello restano infatti sul territorio nazionale. Il problema è nei dottorati, che servono a creare la nuova classe docente. Per formare un dottore di ricerca servono 60-70mila euro spalmati su almeno tre anni, ma lo sforzo per arrivare a questo risultato è inestimabile. Non ha zeri il prezzo dei miei 30 anni trascorsi in giro per il mondo, il know-how acquisito e i contenuti che sono in grado di trasmettere ai miei studenti. Abbiamo dei concorrenti fortissimi, le aziende, che offrono opportunità allettanti ai nostri neolaureati: oltre 2.000 euro al mese con contratto.

Ma se i migliori abbandonano il mondo accademico dove andremo a reclutare i prof del futuro? In questo momento non abbiamo bisogno di tante borse anche perché restano vacanti, non vengono assegnate per carenza di candidati. Sarebbe meglio averne di meno, ma di valore superiore, perché occorre attrarre persone.  Sicuramente le altre aree, come quella umanistica, dove le possibilità di trovare impiego sono estremamente risicate, soffrono di meno e riescono con più facilità a reclutare dottorandi e ricercatori. L’ICT (Information and Communication Technologies), invece, appena intravede delle risorse umane in uscita dagli atenei le fagocita. Tant’è che il 100% dei nostri studenti a un anno dalla laurea lavora a pieno ritmo. Il rientro dall’estero dei cervelli con competenze elevate è quasi impossibile, perché i salari sono incomparabili. Le eccellenze che perdiamo non torneranno indietro».

Entro il 2030 in Europa saranno assunti 20 milioni di informatici. Che spazio ci sarà in Italia?

«Il problema è che al momento non siamo assolutamente in grado di garantire la possibilità di reclutare in Europa 20 milioni di informatici. Basti pensare che in Italia, nell’ambito informatico allargato (che ingloba anche Ingegneria Elettronica, Matematica, Fisica, Statistica, ecc.) abbiamo circa 20.000 laureati l’anno. Nei prossimi cinque anni saranno quindi appena 100mila, che rispetto alla richiesta del Mercato sono davvero pochi. Siamo però certi che non solo possiamo dar loro un lavoro, ma anche che sarà ben retribuito, perché le aziende avrebbero bisogno di dieci volte le risorse disponibili. La motivazione è semplice: i ragazzi  non scelgono di laurearsi in materie STEM (scientifiche, ingegneristiche, tecnologiche e matematiche). E non possiamo neanche forzarli a scegliere un percorso di studi: serve passione per potersi realizzare e dare il massimo.

Attualmente, chi ha investito le proprie energie in una formazione in ambito informatico trova impiego stabile appena mette piede fuori dall’università. E succede a tutti. Anche in Calabria, dove abbiamo tassi di disoccupazione giovanile raccapriccianti, siamo riusciti a creare un indotto in ambito informatico che è in grado di assorbire tutti i nostri laureati. Sono le stesse imprese che operano nell’hinterland a venire da noi in Dipartimento a chiedere risorse umane. Quindi sfatiamo un mito: l’emigrazione dei giovani nell’ICT è una scelta del tutto personale, non è dettata dal Mercato. La domanda delle aziende è altissima e viene soddisfatta solo in una piccola percentuale. È chiaro che in altri campi non è così e partire diventa una necessità».

Il suo gruppo di ricerca è un melting pot scientifico formato da ricercatori provenienti da diversi Paesi. Che valore aggiunto ha in termini di performance lo scambio internazionale di saperi?

«Ce lo dicono i risultati. A livello bibliometrico, sia come numero di articoli sia come numero di citazioni, siamo primi in Italia e tra i top 50 al mondo. Quando parlo delle nostre performance, molti rimangono increduli, perché ciò accade nel contesto di una regione estremamente periferica. Eppure siamo molto attrattivi. Nel mio gruppo infatti abbiamo ricercatori di differenti nazionalità: Pakistan, Romania, Cina, Colombia, India, Marocco, Spagna, Germania. Costruire una rete così ampia mi impegna giornalmente e mi è costato anni di collaborazioni (nelle mie pubblicazioni ho più di 1.000 coautori) però il ritorno in termini di produttività è eccellente. La contaminazione sinergica tra culture e intelligenze diverse è vincente perché gli approcci alla risoluzione dei problemi si fondono, si mescolando in un mix che consente di portare a termine progetti di maggiore qualità».

Quanto costa in termini monetari questa contaminazione?

«L’internazionalizzazione è finanziata attraverso vari canali. Abbiamo studenti e docenti in entrata e in uscita. L’Erasmus è supportato dalla Comunità Europea, che fornisce risorse poi integrate da fondi dell’UniCal: annualmente si oscilla tra i 600mila e i 900mila euro. Per muoverci in contesti extraeuropei usiamo invece risorse del Ministero dell’Università e della Ricerca, che si aggirano sui 500mila euro. Anche la Regione ci sostiene con iniziative dedicate, come ad esempio i recenti programmi di interscambio con docenti di atenei stranieri. Altra cosa è la creazione di un gruppo di ricerca, dove il budget arriva dai progetti: partecipiamo al bando e se vinciamo arrivano i soldi per poter lavorare. Il ritorno è soprattutto culturale. Ne beneficeremo negli anni a venire, grazie alla formazione altamente qualificata con una connotazione fortemente internazionale della nostra futura classe dirigente. È un arricchimento collettivo. Anche perché i colleghi che rientrano poi trasferiscono le nozioni apprese ai propri studenti e le applicano ai progetti di ricerca: è un circolo virtuoso che produce conoscenza, non è quantificabile».

Lei è anche coordinatore del dottorato di ricerca in ICT. Quanto si investe in questo settore?

«Per fare un dottorato di ricerca che dura tre anni c’è bisogno di una borsa di studio. In parte la paga l’ateneo, in parte il Governo, attraverso varie forme. Negli ultimi due anni la quasi totalità di questo budget proviene dal PNRR su linee di azione diverse: la transizione digitale della pubblica amministrazione e l’innovazione industriale con aziende che cofinanziano il progetto. In generale, operiamo costruendo un rapporto tra l’università e il mondo produttivo, siamo molto ambiti dalle aziende. Nell’ultimo triennio abbiamo raccolto 1 milione e 200mila euro e li abbiamo investiti in borse per i ricercatori».

Il laboratorio SPEME (Smart, PErvasive and Mobile systems Engineering) del quale lei è responsabile si occupa di computazione indossabile, reti di sensori corporali e internet delle cose. Di cosa si tratta e quali sbocchi possono avere sul mercato queste scoperte?

«SPEME è un acronimo inglese traducibile in ingegneria dei sistemi intelligenti pervasivi e mobili, ma significa anche speranza. Facciamo ricerca di base i cui impatti si vedranno tra 20/30 anni, ma anche studi applicati. Costruiamo device con ricadute in tanti domini. Faccio un esempio: lo smartwatch è un dispositivo indossabile, non solo un orologio. È capace di misurare tutta una serie di parametri vitali della nostra persona. Il battito del cuore, ad esempio. Lavoriamo su sistemi di questo genere, che però fanno cose molto più sofisticate. Una su tutte: riescono a catturare le emozioni che prova chi li indossa. Noi riusciamo così a dire se una persona è triste o felice, se è stressata o rilassata.

Abbiamo realizzato un sistema che usa sensori indossabili in grado di percepire tali stati per prevenire gli incidenti (e le morti) sul lavoro. Creiamo telecamere intelligenti che consentono di richiamare chi non ha il caschetto, chi non ha allacciato la cinghia di sicurezza, chi si avvicina troppo a un macchinario pericoloso, così da evitare che i lavoratori possano ferirsi mentre svolgono le proprie mansioni, ad esempio all’interno di una fabbrica o su un cantiere. Il fine ultimo è allestire un ambiente protetto a supporto della prevenzione degli infortuni. In ambito biomedicale applichiamo l’Intelligenza Artificiale per fare analisi precocissime di una serie di patologie oncologiche. Utilizziamo l’internet delle cose e l’AI per salvare vite umane e questo non ha prezzo».

Cosa state progettando per potenziare la diagnostica oncologica?

«Stiamo creando un sistema estremamente innovativo. Sono il coordinatore nazionale di un progetto che si chiama RADIOAMICA (RADIOmica/rAdiogenoMIca Cooperativa basata su intelligenza Artificiale) finanziato dal Ministero della Salute, che ha investito 4 milioni di euro nella creazione di una piattaforma multi-istituzione. Serve a condividere modelli basati sulla radiogenomica per la terapia di precisione in ambito oncologico. Lavoriamo su tipologie tumorali che senza l’Intelligenza Artificiale e queste tecniche potrebbero non essere scoperte in tempo o rilevate in una fase troppo avanzata per intervenire. Lo studio coinvolge anche due importanti istituti ospedalieri: il Regina Elena di Roma e il Monzino di Milano. Daremo ai medici una serie di strumenti attraverso i quali potranno fare diagnosi precoci di super precisione e dare speranza a milioni di persone.

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Lo scopo non è quello di sostituire gli  operatori sanitari con i robot, ma potenziarne le capacità operative nelle cure. Obiettivo che è alla base degli insegnamenti dell’Università della Calabria nell’unico corso di laurea in Medicina e Chirurgia e Tecnologie Digitali esistente ad oggi in Italia. Ma c’è di più. Grazie a RADIOAMICA realizzeremo una rete internazionale dove ospedali, cliniche, laboratori e ambulatori medici possano condividere e accedere in tempo reale ai risultati di TAC, radiografie, risonanze magnetiche, PET rispettando le leggi sulla privacy quindi tutelando i diritti dei pazienti, ma offrendo la possibilità di confrontare dati sull’evoluzione delle patologie in altre realtà così da calibrare al meglio e rendere più efficaci le terapie».

UniCal lavora anche all’Intelligenza Artificiale Green. Quali sono gli obiettivi e quante risorse sono state stanziate?

«Si tratta di un progetto strategico a livello nazionale, finanziato nell’ambito del PNRR: si chiama FAIR (Future Artificial Intelligence Research). Dal punto di vista delle risorse, stiamo parlando di milioni di euro, che servono da una parte a pagare nuovi ricercatori a tempo determinato, assegnisti di ricerca e dottorandi, dall’altra ad acquisire attrezzature. Lavoriamo sull’Intelligenza Artificiale Green. L’AI infatti può essere utile e agevolarci in tante mansioni, ma c’è un prezzo da pagare, che non è solo etico-sociale e risolvibile con le leggi, ma ha un costo in termini ambientali. Il funzionamento dei chatbot richiede tantissima elettricità e quindi inquina. Noi disegniamo nuovi algoritmi sostenibili, che sono meno energivori».

Tra i progetti in itinere c’è MLSysOps, come potranno essere applicati i risultati di queste ricerche?

«MLSysOps (Machine Learning for Autonomic System Operation in the Heterogeneous Edge-Cloud Continuum) e Common-Wears sono studi che con molta fatica abbiamo portato avanti e con il mio gruppo di ricerca siamo riusciti dopo mesi di lavoro a far approvare. Il primo, finanziato con circa 5,7 milioni di euro di fondi comunitari, si occupa di sperimentazioni ad alto impatto tecnologico. Conta 12 partner europei e riguarda l’Internet delle cose, ovvero tutti quegli oggetti smart con i quali conviviamo e che saranno sempre più presenti nella nostra quotidianità negli anni a venire.

Stiamo creando un’infrastruttura digitale che sarà in grado di organizzare, coordinare e far funzionare in maniera autonoma questi milioni di dispositivi, perché si prevede che nel 2050 avremo trilioni di “smart objects” sparsi in tutto il mondo, con i quali le persone interagiranno giornalmente. Non è pensabile che possano essere gestiti dagli umani, che saranno “solo” 12 miliardi, quindi diversi ordini di grandezza al di sotto. Devono quindi essere pensati per operare in modo completamente automatico ed autonomo. E noi, anche con l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, stiamo creando un sistema di autogestione di questi oggetti, dell’IoT (Internet of Things) presente nei settori più disparati dai software dei servizi di smart city all’agricoltura di precisione»..

E i dispositivi indossabili di Common-Wears a cosa serviranno?

Common-Wears, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca, come suggerisce il nome stesso del progetto, studia nuovi dispositivi indossabili di prossima generazione. Sperando di non averne più bisogno, costruiamo sofisticati software utili a monitorare l’andamento dei contagi nel corso di un’epidemia o di una pandemia, che non possiamo escludere possa colpire nuovamente l’umanità in futuro. Saremo anche in grado di seguire in tempo reale, sfruttando l’AI, come si sposta il virus. Con questa infrastruttura miriamo a osservare come si propaga la malattia tra le persone, andiamo automaticamente a tracciare i contatti così da avere contezza di come si sta muovendo il virus così da intervenire per evitare che si estenda e coinvolga più comunità. Funzionerà con dei braccialetti hi-tech e/o orologi intelligenti, utilizzando algoritmi in grado di restituire informazioni che possano tutelare la privacy di chi li indossa. Ovviamente, questo non sarà l’unico ambito di applicazione, in quanto il tracciamento viene studiato in modo tale da poter essere attivato anche in caso di catastrofi naturali come terremoti o alluvioni, per rintracciare i dispersi».

Da cofondatore e amministratore dello spin-off universitario SenSysCal S.r.l., quali sono passi per fare impresa nel settore high-tech?

«Ho avuto la fortuna di conoscere, nella Silicon Valley, lavorando per l’Università di Berkeley, il modello degli spin-off dieci anni prima che fossero introdotti in Italia. Facevamo sistemi multimediali, ovvero gli Zoom, Teams e Meet che abbiamo usato durante la pandemia: li avevamo sviluppati 25 anni fa. In quel contesto, che è a tutt’oggi un punto di riferimento mondiale, le aziende nascono sulla base di ricerche universitarie. Capital Ventures o Capital Evangelist scommettono sulla loro riuscita investendo milioni di dollari. E qualche spin-off poi diventa Facebook, oggi Meta. Ma lavoro anche nella Silicon Valley cinese, nella città di Shenzhen, dove la ricerca viene industrializzata e commercializzata nel giro di pochissimo tempo. Faccio un esempio. Con lo Shenzhen Institute for Advanced Technologies ho realizzato un cuscino che monitora i parametri vitali mentre dormiamo.

Da quando lo abbiamo progettato a quando abbiamo avuto il prototipo a quando poi è stato immesso sul Mercato sono passati soli tre mesi. Nel 2010 ho fondato SenSysCal, che produce software per i sensori dei dispositivi indossabili. Li abbiamo rilasciati in open source e alcune aziende li hanno poi utilizzati per i loro prodotti. È così che si avvicinano le aziende alla Scienza. Cosa manca? L’ecosistema, una visione più operativa e aziende lungimiranti di un certo spessore. Il tessuto delle piccole e medie imprese non basta: nelle Silicon Valley americana e cinese ci sono i grandi elefanti (Meta, Google, Microsoft, Huawei, Alibaba), non i pesci piccoli. Quando intervengono loro riusciamo a costruire realtà strabilianti. Con i 120 milioni di euro del progetto Tech4You (di cui siamo capofila) finalizzato a contrastare il cambiamento climatico per favorire il miglioramento della qualità della vita, contiamo di realizzare il nostro sogno: attraverso Entopan, coordinare le università, nelle quali si sviluppa una ricerca di base o si prototipa una tecnologia, e le aziende del territorio. Confido che i risultati saranno promettenti». ©

Articolo tratto dal numero del 15 giugno 2024 de il Bollettino. Abbonati!

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