giovedì, 17 Ottobre 2024

Economia europea: la ripresa c’è, ma la crescita è debole

DiMarco Battistone

1 Luglio 2024
Sommario
Europa

La sensazione è quella di un nuovo punto di partenza. L’inizio del taglio dei tassi della BCE a giugno, dopo quasi due anni di rialzi, traghetta l’economia europea in una nuova fase. Per vedere degli effetti reali sull’economia, però, ci vorrà tempo. Intanto, i dubbi e i timori restano gli stessi. La ripresa c’è stata, ma la crescita del blocco è relativamente debole – appena 0,8% nel 2024 e 1,4% nel 2025 – per l’Eurozona. Basterà a superare la fase pandemica senza tornare nella stagnazione che l’aveva preceduta? In più, e non è secondario, non è detto che l’inflazione – al momento sotto controllo – non torni a mordere. «Finché l’aumento dei salari resta contenuto, dovremmo essere al riparo», rassicura Laurence Boone, ex Segretario di Stato per l’Europa nel Governo francese e già capo economista dell’OCSE. «Ma gli shock esogeni non si possono trascurare». Dalla chiusura di un altro gasdotto in Russia all’esplosione di un’altra polveriera internazionale – gli esperti temono il Libano o, peggio ancora, Taiwan – gli scenari di rischio sono parecchi. Il tutto senza contare il teatro di incertezza più vicino, cronologicamente e geograficamente, quell’elezione francese che già infiamma nuovamente lo spread e rialimenta i timori di frammentazione.

Laurence Boone, economista

Ancora in settembre, l’economic survey dell’OCSE sull’Eurozona avanzava l’idea che una politica monetaria restrittiva sarebbe ancora stata necessaria per contrastare l’inflazione che da allora è scesa da più del 4% a circa il 2,6% a maggio 2024. Ma possiamo veramente trascurare i rischi inflattivi ora che è iniziato il taglio dei tassi?

«Chiaramente no. Se la Russia decide di far saltare qualche componente dell’infrastruttura energetica, allora avremo nuovamente un problema coi prezzi dell’energia. Non credo che possiamo escludere questo: dovremo abituarci a una volatilità maggiore, anche perché l’economia globale è un po’ meno aperta e più frammentata; dazi e misure simili non sono più così infrequenti. Ma ciò che più conta è la crescita reale dei salari, che è anche l’aspetto su cui la BCE sarà probabilmente più reattiva, perché non vuole vedere la seconda ondata di effetti sull’inflazione che potrebbe venire da quel fronte. La ragione per la quale dico questo è che i servizi sono circa il 70% dello HICP (indice armonizzato dei prezzi al consumo, ndr) europeo e l’inflazione nel prezzo dei servizi è dovuta ai salari. Di conseguenza, questi ultimi restano il fattore più importante da tenere sott’occhio. Per ora, però, non c’è stata una spirale».

Nel novembre 2020, quando ha rilasciato la sua ultima intervista per Il Bollettino, la situazione economica era radicalmente differente da quella attuale. L’Europa e il mondo stavano uscendo da una pandemia e le parole chiave erano crescita e ripresa. Quali sono i principali obiettivi economici per l’Eurozona oggi?

«L’aspetto chiave è avere una strategia sull’economia e sulla competitività. Questo perché siamo 450 milioni di persone, con un PIL pro capite di 40mila euro che ci rende la regione più ricca al mondo. Eppure, non siamo stati in grado di prendere in mano il nostro indirizzo tattico. A dire il vero, una strategia l’avevamo, negli anni ’90, basata sull’apertura. Ma non sempre gli altri player hanno giocato secondo le regole e dalla crisi finanziaria in poi abbiamo cominciato a perdere produttività. In parte, questo è dovuto alla politica fiscale che abbiamo adottato in seguito alla crisi, estremamente diversa da quella applicata negli Stati Uniti. D’altra parte, abbiamo focalizzato i nostri interventi soprattutto sul consumatore, ponendo un forte accento sulla competizione interna, ma non abbiamo prestato sufficiente attenzione ai nostri concorrenti esterni».

Venendo ai principali attori dello scacchiere globale, da un lato abbiamo la Cina, che tradizionalmente si rifiuta di rispettare le regole del gioco che segue l’Occidente. Dall’altro lato, abbiamo gli Stati Uniti, che di recente hanno iniziato a cambiare il loro atteggiamento, assumendo toni sempre più protezionisti: lo mostra chiaramente l’Inflation Reduction Act varato da Biden. L’Europa dovrebbe varare un piano simile?

«L’Unione Europea dovrebbe avere la sua strategia autonoma, anzitutto perché siamo radicalmente diversi dagli Stati Uniti. Non siamo un Paese, ma 27, con un Mercato comune imperfetto. Per questo, un obiettivo di partenza è ovviamente quello di completare il Mercato unico, rendendolo sempre più tale, come evidenzia il recente rapporto stilato da Enrico Letta per la Commissione Europea. L’altra necessità è quella di aumentare la produttività, il che si ottiene migliorando il capitale umano, potenziando il nostro sistema di istruzione e formazione e la nostra abilità di produrre e assorbire tecnologia. Da ultimo, abbiamo bisogno di investire di più nell’economia europea».

Cosa significa “assorbire” la tecnologia?

«Ci sono due opzioni, quando si parla di innovazione tecnologica: o la produci o la utilizzi. Con “assorbire” intendo la seconda; non abbastanza aziende europee impiegano tecnologia. Perché? Semplice: quando vuoi adottare una strategia digitale per la tua impresa, hai bisogno che anche le persone ruotino. Questo comporta un reskilling – o un upskilling – della forza lavoro che richiede flessibilità. È un aspetto su cui possiamo migliorare. Però noi abbiamo anche molti ricercatori e molte Startup, solo che tendono a trasferirsi in America: dobbiamo anche ragionare su come farli restare a casa».

Insomma, al centro di una strategia industriale europea c’è il capitale umano?

«Abbiamo bisogno di migliorare su tutti i fronti: nel capitale umano, finanziario e fisico, oltre che nell’avanzamento tecnologico. Ma dobbiamo anche essere un po’ più strategici. Per esempio, necessitiamo di più commercio o investimenti diretti esteri per ottenere le materie prime critiche necessarie alla transizione Green o ad aggiornare la nostra infrastruttura digitale? Abbiamo bisogno di una seria discussione in merito, con un piano di implementazione pratica. In Europa abbiamo aziende che competono per produrre equipaggiamento militare e per esportarlo su larga scala. Non potrebbero lavorare insieme per rispondere almeno ad una parte del fabbisogno dell’Unione? Non significa limitarli nella loro capacità di esportare, non è necessario. Ma possiamo tenere più materiale, produrre di più a casa nostra?».

La domanda, in fase di ripresa, è sempre un aspetto problematico. Cosa si può fare per stimolarla?

«Non credo che sia messa così male. In Europa, abbiamo una disoccupazione ai livelli più bassi di sempre e un’occupazione che sta toccando i tetti più alti. Nel complesso, abbiamo attraversato la fase pandemica relativamente bene. Quello che va fatto ora per aumentare domanda e consumi è fornire certezze alla gente: quando ti mancano ottimismo e la speranza nel futuro, allora risparmi di più. Abbiamo un sacco di risparmiatori che finanziano, in buona parte, il debito dei Governi. Sarebbe meglio se avessimo un deficit più contenuto e di conseguenza meno bisogno che queste risorse vadano a confluire nel debito pubblico, sbloccando l’opportunità di impiegare questi capitali in azioni e nel patrimonio delle imprese. Questo mostrerebbe che abbiamo più fiducia e aiuterebbe la crescita delle aziende, generando al tempo stesso una domanda maggiore».

Il Fondo Monetario Internazionale, nell’ultima edizione del suo World Economic Outlook, suggerisce che è tempo per i Paesi di cominciare a tagliare il debito in modo tale da allargare il loro spazio fiscale. Un debito eccessivo è tratto comune a due delle principali economie dell’Eurozona: Francia e Italia. La reintroduzione del Patto di Stabilità sarà sufficiente a garantire una traiettoria di correzione adeguata?

«Nessun patto può essere abbastanza. Abbiamo bisogno che i cittadini, i legislatori, perseguano una politica fiscale responsabile. Serve che le persone capiscano che è una questione di correttezza verso le future generazioni, perché accettino di sostenere gli investimenti necessari per ridurre il nostro rapporto debito/PIL. In alcuni casi, e l’Italia è uno di quelli, il principale responsabile di un rapporto elevato è la crescita debole, ma per altri Paesi è la spesa pubblica eccessiva. E quando la gente non pensa che la qualità dei servizi stia migliorando, ma continui a spendere molto, forse si può cominciare a mettere in discussione il modo in cui questo denaro viene speso».

Sempre secondo il Fondo Monetario internazionale, la crescita dell’Italia è prevista allo 0,7% sia nel 2024 sia nel 2025. Questo significa che, se nel breve termine siamo allineati a Germania e Francia, sull’orizzonte medio resteremo indietro (la crescita tedesca e quella francese sono previste rispettivamente al +1,3% e +1,4% nel 2025). Questa lentezza è da temere?

«Dovremmo tutti essere preoccupati per il tasso di crescita di lungo periodo, perché è troppo basso. Non c’è una sola spiegazione: è un fatto in parte dovuto a uno strascico degli effetti di una politica monetaria restrittiva, che produce meno credito e meno domanda. Questa situazione sta tardando a cambiare. Per un altro verso, si tratta di un fattore di fiducia, come dicevo prima: ha un impatto su domanda e consumi, ma anche sugli investimenti. Poi c’è la transizione demografica che stiamo vivendo e, da ultimo, bisogna inserire nell’equazione la produttività. Per questo si discute molto del perché adottare le tecnologie digitali è cruciale. Credo che il problema verrà risolto proprio da questa transizione. In più, al momento abbiamo moltissime nuove risorse che occupano le posizioni lavorative, e questo normalmente implica minore produttività. Ma se siamo pazienti e diamo loro qualche anno di esperienza, la situazione non potrà che migliorare».                             

L’integrazione europea potrebbe essere a sua volta un elemento di produttività, per via della scala maggiore?

«Sì, ho menzionato il settore della difesa, ma lo stesso vale per moltissimi altri contesti».

Parlando della difesa, ci sono cinque Paesi europei che producono la maggior parte dell’output del settore: Francia, Italia, Germania, Svezia e Polonia. Possiamo veramente chiedere agli altri Paesi di investire in queste industrie locali in nome dell’integrazione?

«Ciascuno Stato membro è libero di produrre o comprare assetti militari per contribuire alla difesa comune, ma aiuterebbe se questi cinque Paesi, possibilmente con l’aggiunta del Regno Unito, unissero le forze. Per produrre di più, essere più innovativi e competere meglio con il resto del mondo piuttosto che tra loro. L’obiettivo è che gli Stati membri comprino più prodotti europei e che questi prodotti siano interoperabili. Questo migliorerà anche la competitività e l’innovazione dell’equipaggiamento difensivo europeo».

La frammentazione, al centro del dibattito nel corso della crisi del debito sovrano, sembra ridiventare un problema chiave. Crede che le misure prese durante il Covid-19 l’abbiano aumentata o ridotta?

«Non credo che la pandemia abbia contribuito alla frammentazione. A dire il vero, direi l’opposto, grazie al Recovery Fund europeo, Next Generation EU, un supporto a investimenti e coesione da 800 miliardi, con l’Italia a fare la parte del leone. Ciò che ha invece un ruolo nella frammentazione è la risposta all’Inflation Reduction Act americano, cui abbiamo replicato riducendo la soglia per gli aiuti di Stato nazionali. E ovviamente dipende dalle dimensioni del Paese e dal suo spazio fiscale».©

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Articolo tratto dal numero dell’1 luglio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

📸 Credits: Canva

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".