giovedì, 17 Ottobre 2024

Parità di genere: lo stato dell’arte, 12 punti da sapere

Sommario
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Donne e diritti. Penalizzate sul lavoro più di quanto non lo siano in Mongolia. Nel nostro Paese il carico degli impegni familiari grava sulle opportunità di carriera. E la situazione non migliora. Anzi. Rispetto al 2023, secondo il report sul Global Gender Gap 2024 del World Economic Forum, siamo andati giù di 8 posizioni nella graduatoria mondiale. «È un dato preoccupante» dice Florinda Scicolone, Giurista d’Impresa, Esperta di Politiche di Genere che da 24 anni si occupa di normative sulla parità di genere, avendo seguito importanti riforme costituzionali e legislative sulle pari opportunità e diritti civili delle donne.  

1 – Peggio di Uganda e Mongolia

«Quest’anno l’Italia è bocciata dal Global Gender Gap 2024. Si trova all’87° posto su un totale di 146 Paesi, mentre lo scorso anno era 79esima. Analizzando il report vediamo che a gravare maggiormente sono le pessime performance sul fronte dell’occupazione femminile. Fanno meglio di noi persino l’Uganda, la Mongolia, la Bosnia. Nonostante nessuno Stato al mondo abbia ancora raggiunto la piena parità di genere (gli italiani sono al 70,3%), se ci paragoniamo agli altri Paesi europei siamo posizionati malissimo per quanto riguarda l’alta percentuale di donne disoccupate. Eppure il lavoro è fondamentale perché fin quando non c’è parità occupazionale sarà difficile raggiungere la parità di genere».

2 – Le donne investono economicamente di più in Formazione laurea e post laurea

«Il divario con gli uomini si manifesta già durante gli studi. Ecco perché. Le statistiche dicono che le donne sono maggiormente istruite rispetto agli uomini. Abbiamo una formazione più completa a parità di curricula, siamo più qualificate a parità di mansioni, ci laureiamo di più, intraprendiamo di più percorsi post-laurea. È come se dovessimo sempre dimostrare qualcosa. Quindi spendiamo più soldi, tempo ed energie. L’investimento intellettuale ed economico iniziale è superiore.

Lauree, master, perfezionamento delle lingue all’estero, corsi di aggiornamento costano infatti denaro e fatica. Il gender pay gap inizia da qui perché nel momento in cui le donne studiano di più significa che partono con un investimento maggiore di risorse. E non basta. Il vero gap è che tutto questo non serve ai fini dell’inserimento nel mondo del lavoro. Anzi. Le opportunità di carriera sono inferiori ai colleghi maschi. Motivo che ha fatto precipitare l’Italia nella classifica del Global Gender Gap 2024. Nel nostro Paese infatti esiste ancora un ampio divario tra l’occupazione femminile e maschile».   

3 – La carriera professionale delle Donne 

«Le retribuzioni sono l’aspetto più evidente del gender pay gap che è quasi sempre indiretto. Come? Non succede al momento dell’assunzione dove è chiaro che la  Retribuzione Annua Lorda sia uguale agli uomini, ma a un certo punto la donna non prosegue nella carriera. Si ferma molto spesso al ruolo di quadro. Non salta in quello di dirigente, progressione che i colleghi riescono a compiere con più facilità. Ecco come si crea il gap: a parità di anzianità e titoli (il curriculum della donna è in media più completo) l’avanzamento si arresta. Perché? Manca ancora una vera e propria politica di welfare aziendale. Le imprese non investono realmente tanto nei servizi. Ciò comporta che la lavoratrice non disponga di strumenti che favoriscano il conciliare famiglia e lavoro. E non solo».   

4 – La conciliazione Lavoro delle donne e famiglia 

«Un altro gap è nella cura dei genitori anziani. In Italia, non essendoci un welfare statale particolarmente sviluppato, molto spesso, se non addirittura quasi sempre nelle situazioni di cura dei genitori anziani è solo la donna che se ne fa carico. La loro assistenza influisce nei blocchi della progressione di carriera in quanto serve dedicare tempo alla cura della famiglia, intesa non solo come maternità e assistenza ai minori, ma anche come caregiving. La famiglia italiana grava in assoluto sulla donna non vivendo in uno Stato che fornisce supporto come succede in altri Paesi. Non per niente, al primo posto c’è l’Islanda che ha raggiunto il 93,5% di parità di genere. Una nazione che gode di welfare pubblico e aziendale».   

5 – Divario salariale, perché l’Italia retrocede 

«La matrice del problema è l’occupazione femminile. Porta con sé l’assenza di welfare statale e aziendale, pilastri per ogni carriera. E senza lavoro non può esserci parità di genere. L’elasticità dell’impresa consente alle lavoratrici di non fermarsi se subentrano maternità, genitori anziani o malattie. Con servizi solidi welfare, la donna resta in servizio e viene promossa come succede all’uomo senza che, ad esempio, la genitorialità (soprattutto quella tra gli 0 e i 4 anni) ne blocchi la crescita professionale. Quando le imprese credono realmente nell’inclusività femminile, concedono la possibilità di dimostrare il valore della formazione e di esprimere il potenziale dell’universo femminile. Di mettere a frutto gli studi compiuti, gli investimenti fatti per per progredire nelle posizioni apicali».   

6. Il rischio di pinkwashing 

«Per evitare il pinkwashing serve riconoscere le risorse intellettuali ed economiche spese dalla donna con posizioni e retribuzioni adeguate. È questo il nocciolo del problema: dobbiamo puntare ad un equilibrio di genere sostanziale e non solo formale. Mi occupo di questa tematica dal 2000. Oggi è vero che è un trend, sono cambiati i feedback e gli approcci alle pari opportunità. C’è un’apertura, però rimane ancora molto pinkwashing. Le imprese dovrebbero investire in una governance orientata al welfare aziendale che è lo strumento per combattere il gender pay gap.

Dobbiamo creare un manifesto dello sviluppo sostenibile di genere costituito da atti concreti, nel quale va promosso il principio di autoregolamentazione delle imprese. Dobbiamo chiedere alle aziende investimenti di  budget specifici per fornire supporto alle lavoratrici, se non c’è in una azienda investimento economico per le politiche di genere non c’è parità, ma solo pinkwashing. Le imprese devono intendere le pari opportunità come un’occasione di sviluppo del business. Non è un favore a noi donne, ma una prospettiva positiva di crescita. Fino a quando culturalmente non viene intrapreso questo percorso si resta nell’alveo del pinkwashing, in un qualcosa limitato alla sfera della comunicazione. Eppure la valorizzazione del talento femminile è un motore importante del business, un’arma vincente». 

7. Le donne italiane 

«L’Italia ha peggiorato il suo gender pay gap perché nel nostro Paese mancano servizi. Certo abbiamo quasi 1.800 aziende che hanno richiesto e ottenuto la certificazione di genere, ma non basta. L’accesso al mondo del lavoro non avviene in maniera modo egualitario rispetto agli uomini. La vera parità di genere però si ha quando le donne sono occupate e messe nelle condizioni di esprimere valore e merito senza dover scegliere tra famiglia e carriera. Un principio che è stato anche normato e inserito nell’articolo 51 della nostra Costituzione a partire dal 2001. È stato un passaggio storico importante per le italiane. Donne che pur avendo curricula eccellenti non possono esprimere la declinazione professionale che meritano». 

8. La nuova declinazione del femminismo 

«Se continuiamo a definirci femministe, ci stiamo autocastrando. Dobbiamo dare una connotazione precisa ai movimenti di attivismo civile. Il femminismo riguarda un periodo storico che va dall’inizio della Repubblica agli anni Novanta e porta con sé la lotta (che ha raggiunto il suo culmine tra gli anni Sessanta e Settanta) per l’emancipazione, parola che etimologicamente deriva dal latino. Significava fuoriuscità dalla patria potestà dell’uomo. Dal 2000 in poi il femminismo viene superato come periodo storico, comincia una nuova fase, il concetto ha una declinazione nuova perché l’affermazione dell’emancipazione della donna è ormai avvenuta. Si è aperto nel 2001 il periodo della ricerca dell’affermazione del principio delle pari opportunità che non ha lo stesso significato.

Da 50enne ringrazio le femministe che hanno condotto le battaglie che ci hanno permesso di superare il gap del patriarcato e passare alla fase storica del principio dell’affermazione delle pari opportunità. Ritengo che chi si definisce, ancora femminista nel 2024, non fa un regalo alla buona causa della parità, perché è come se affermassimo di essere fermi (o ritornati indietro) agli anni Settanta. Mi rendo conto molto spesso che non è diffusa l’approfondita conoscenza della storia della parità. Spesso femminismo e pari opportunità vengono dallo scenario collettivo percepiti come sinonimi, ma non è affatto cosi. Da qui nasce la convinzione che abbiamo la necessità di far conoscere e formare la cittadinanza sul percorso storico della parità, per comprendere in quale fase siamo e come procedere, cominciando dallo studio sulla terminologia usata, essenziale per dare il significato storico appropriato di quello che viviamo».  

9 – Diversity inclusion non significa pari opportunità  

«Se femminismo e pari opportunità non sono sinonimi, non lo sono neanche le parole parita di genere e  diversity inclusion. Sarebbe un errore confonderle perché sono espressioni differenti originate da lingue e concetti diversi. Parità di genere deriva dal latino, diversity inclusion dalla cultura ed etimologia anglossassone. Se vogliamo necessariamente utilizzare gli inglesismi dobbiamo sempre ricordarci che l’inclusione femminile è una declinazione specifica della diversity, ma non un sinonimo».  

10. Rompere il soffitto di cristallo

«Per rompere realmente  il soffitto di cristallo e abbracciare lo sviluppo sostenibile le aziende dovrebbero fare investimenti a lungo termine con capitoli di spesa dedicati. La strategia della parità prevista per la certificazione di genere comporta la creazione di un budget definito. Questa prassi è istaurata in virtù delle linee guida UNI/PDR 125 perché le affermazioni sostanziali delle pari opportunità devono necessariamente passare da economie di budget. Lo dico da tempo, sarebbe il momento che nelle aziende ci fosse la creazione di una Direzione ad hoc: un Dipartimento dedicato alle pari opportunità a riporto dell’Amministratore Delegato/a, che si occupi del tema coordinandosi in modo trasversale con tutte le altre direzioni. Le aziende devono investire nella formazione di genere per sviluppare le politiche, oggi obbligatorie per aziende che vogliono certificarsi, mi riferisco soprattutto alla formazione sulla “tolleranza zero”, obbligatoria per tutta la popolazione aziendale». 

11 – La Parità di Genere non deve avere colori politici

«L’impegno verso l’affermazione della valorizzazione dei talenti femminili, della leadership femminile deve rimanere al riparo dalla strumentalizzazione politica. Non deve avere colori, ma essere un impegno bipartisan e il tema non deve prestare il fianco a nessuna forma di strumentalizzazione. Gli strumenti normativi sono importanti, però li dobbiamo considerare sempre un mezzo per ottenere il fine. Il recente esempio della proposta di modifica dello statuto di Cassa Depositi e Prestiti per diminuire le quote di genere, ci consegna una riflessione amara. Siamo ancora lontani dallo sviluppo sostenibile di genere inteso come scelta volontaria della governance di valorizzare i talenti femminili. 

La vicenda induce a una riflessione giuridica sull’importanza della Legge Golfo-Mosca, alla quale l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) recentemente ha riconosciuto che l’Italia è al quinto posto al mondo per presenza di donne nei Consigli di Amministrazione delle quotate. Però, fa anche riflettere sul meccanismo diverso imposto dalla normativa per le quotate soggette al controllo CONSOB (Commissione nazionale per le società e la borsa). Quindi l’obbligo funziona perché la sanzione prevista dalla legge è la decadenza dell’intero CdA alla terza diffida e invece per le partecipate sia pure previsto obbligo non è sotto l’egidia di un’autorità indipendente». 

12 – Necessità cogente della costituzione dell’Authority per la Parità di Genere

«Lella Golfo, prima firmataria della legge Golfo- Mosca e Presidente della Fondazione Marisa Bellisario, a cui va riconosciuto il merito di avere dato una svolta storica in Italia sull’empowerment femminile, nel 2008 presentò alla Camera un progetto di legge per la creazione di un’Authority sulle Pari Opportunità. che non vide la luce. Credo che più che mai in questo periodo storico, sarebbe necessaria e auspicabile la costituzione di un’Authority indipendente. Lo indica anche l’orientamento dell’Unione Europea. Un organismo che vigili in modo autonomo e indipendente sull’applicazione di tutte le normative che vigono sulle pari opportunità e diritti delle donne.

Mi occupo da oltre 20 anni di normative compliance e ho esperienza della grande importanza delle Autorità indipendenti, vedi l’Autorità nazionale anticorruzione, il Garante per la protezione dei dati personali, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, la CONSOB, etc. Perchè non dobbiamo avere anche un’Autorità che vigila sulle normative che riguardano la parità di genere? Questo tema nelle aziende deve essere declinato in chiave compliance e sostenibilità anche in conseguenza delle importanti direttive europee che sono state emanate e che dovranno essere recepite entro giugno 2026: la direttiva sulle quote di genere, la direttiva sulla trasparenza retributiva, etc.». ©

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